La poesia, specie quella di un grande poeta, non ti lascia tranquillo. Resta, t’inchioda, ti perseguita, anche se non la capisci subito. Può risultarti enigmatica, ma proprio per questo affascinante. Capitò ad Ungaretti con Mallarmè: lo leggeva e non capiva niente, tuttavia ne era irretito.
Quando ho letto Risvegli di Ungaretti, nel mio banco di commissario d’esame, in un caldo corridoio, durante la prima prova, col caldo, la noia e la fatica di tutti i commissari, ho pensato che era un testo difficile e neanche tra i migliori dell’Allegria. E ho guardato con una certa ammirazione quei due studenti, sugli oltre cinquanta che avevo davanti, che l’hanno scelta per il loro compito. Ho chiesto ad una collega, che ne parlava con entusiasmo, che cosa ci avesse trovato di bello. Mi ha detto che là dentro c’era lei, con la sua esperienza di tutta una vita. Bene, ma se non ci entri anche tu, con la tua esperienza, il testo rimane chiuso, impenetrabile. E così accadeva a me. Ma, come detto all’inizio, la grande poesia ti perseguita, ti resta dentro. E allora ecco che, ventiquattr’ore dopo, quel testo si è illuminato, a forza di ascoltarlo.
Dunque, Risvegli. Cos’è un risveglio? Quando, nella nostra esperienza, ci risvegliamo? Quando dopo aver dormito e sognato (forse) torniamo alla realtà. Eravamo da qualche altra parte, volavamo da qualche parte, torniamo sulla terra, atterriamo (atterriti, se là dove stavamo era più bello).
Ma nella logica rovesciata di Ungaretti uomo di pena in trincea, risvegliarsi significa esattamente l’opposto: passare dalla realtà ad un’altra dimensione, reale anch’essa, ma in modo diverso. Ed è significativo che questo passaggio non sia identificato come sogno, ma sia definito un “risveglio”: c’è qui l’idea che l’essenziale si coglie attingendo o in qualche modo toccando misteriosamente l’Altro, l’Oltre. Normalmente ci crediamo svegli, e invece dormiamo. Il poeta ci aiuta a risvegliarci.
L’uomo risvegliato è quello che passa il varco, il confine tra le due realtà, chi si apre su ciò che non si vede con gli occhi e fa un’esperienza di beatitudine, ritrovando se stesso (“Ogni mio momento/ io l’ho vissuto/ un’altra volta”) in un modo più vero. Sorpresa e dolcezza sono la caparra di questa esperienza. Le cose diventano allora care, come l’ermo colle di Leopardi. E ci si sente riavere, cioè appunto restituiti a se stessi.
Il “sentirsi riavere” è come il “dolce naufragare”. Si scopre allora che i risvegli di Ungaretti e l’infinito di Leopardi descrivono la stessa esperienza. In entrambi i testi i poeti si dispongono ad accogliere una realtà che è fuori di loro, che non fanno loro (le “gocciole di stelle” o il vento che stormisce tra le piante). Entrambi sono in ascolto, in contemplazione, in uno stato solo apparentemente passivo, perché il loro cuore è in attesa e in una posizione di desiderio. Non c’è niente da creare, si tratta solo di accogliere qualcosa che accade.
Questa esperienza è un dono gratuito e prodigioso (come l’apparizione dei limoni nell’omonima lirica montaliana), non un prodotto delle proprie capacità o delle proprie strategie e proprio in quanto miracolosa porta con sé la domanda delle domande, che esplode improvvisa: “Ma Dio cos’è?”. Non ci si mette impunemente in rapporto con il Mistero, senza che questa domanda emerga prepotente e si ponga in tutta la sua urgenza. Dio è la questione delle questioni.
Siamo creature atterrate e atterrite, che si risvegliano, a volte, di fronte al Mistero. La poesia, allora, sgorga come “un ponte verso il Mistero” (è proprio la definizione di Ungaretti), che se non colma la distanza, tuttavia lo esprime e ce lo fa vedere. Anche nelle condizioni più dure e tragiche si possono scrivere “lettere piene d’amore” ed aprirsi alla vita, quella vera.
È una logica rovesciata, una strana sensazione, come quella “illogica allegria” dell’Ungaretti “lupo di mare”, che si stupisce di poter riprendere il suo viaggio dopo un naufragio. Un’avventura non molto singolare, però, se tutti possiamo capirla, se tutti noi sappiamo, perché li abbiamo vissuti, cosa sono certi risvegli.