All’inizio dello scorso mese di ottobre sulla stampa palermitana si è sviluppata una polemica, breve ma dai toni accesi, quando è giunta la notizia che il libro di don Marcello Cozzi, Uno così. Giovanni Brusca si racconta” (San Paolo, 2024) sarebbe stato presentato a San Giuseppe Jato, luogo di nascita e crescita di Brusca, alla presenza dell’autore del medesimo libro.
Tutto è nato dalla domanda sulla opportunità che l’iniziativa avrebbe dato a Brusca di accendere i riflettori sulla sua persona, non meritevole di alcuna attenzione, vista l’efferatezza degli omicidi di cui si è accusato e per i quali è stato condannato e ha scontato la relativa pena.
Dal web si ha notizia di altre due presentazioni, una a Palermo e una a Potenza, città natale dell’autore, nelle stesse settimane.
Le voci del dissenso sono state raccolte e sintetizzate da Nicola Di Matteo, fratello del piccolo Giuseppe, sequestrato, strangolato e sciolto nell’acido, per volere di Brusca, dopo una prigionia durata quasi trent’anni, il quale ha affermato: “Non bisogna dare più visibilità agli uomini di Cosa nostra che hanno martoriato il territorio”. Posizione non condivisa dal sindaco di San Giuseppe Jato, Giuseppe Siviglia, da cui l’iniziativa è partita: “Capisco i familiari delle vittime. Ma il libro, a mio giudizio, ha un valore educativo: raccontando quella ferocia induce tutti a prendere le distanze”.
A tutto ciò vanno aggiunti i numerosi giudizi di condanna espressi “in libertà” sul web da tanti cittadini. Questi esprimono il pensiero pressoché dominante secondo cui questa iniziativa come altre simili portano acqua al mulino della mafia, indipendentemente da quanto ad esempio è scritto nel libro.
Ed è per questo che forse è opportuna una breve illustrazione dei contenuti del volume prima di addentrarsi in giudizi e valutazioni.
Innanzitutto, l’autore. Chi è don Marcello Cozzi? È un sacerdote noto per le sue coraggiose battaglie antimafia, ex vicepresidente di Libera e sacerdote esperto nell’accompagnamento dei pentiti di mafia. È un teologo e sull’argomento del pentitismo ha scritto altri libri. Il testo nasce dai numerosi incontri tra Brusca e Cozzi, e riporta dichiarazioni virgolettate del primo e commenti e spiegazioni del secondo.
Di seguito alcune dichiarazioni del sacerdote sul contenuto del libro e sul significato dell’iniziativa editoriale.
“Negli anni ho incontrato molti pentiti e sempre con l’unico fine di capire. Non sono il portavoce di nessuno. Ho solo raccolto l’inferno che si porta dentro una persona che ha fatto scelte tanto crudeli senza giudicare e certo senza giustificare”. “Comprendo quel che vivono i familiari delle vittime e li rispetto. Davanti al loro dolore e alle loro reazioni possono solo stare in silenzio. Ma io rivendico il diritto di pensare che ascoltare il dolore di Abele non mi impedisca di parlare con Caino. Di certo però non cerco impossibili riconciliazioni”.
Questa è la prima domanda per tutti noi: ascoltare il dolore di Abele deve negare a chi vuole il diritto di parlare con Caino?
La prima parte del libro è una sorte di introduzione al tema, e non alla figura di Brusca, in cui don Marcello precisa subito che non ha risposte da dare, ma esprime soltanto il suo desiderio di accompagnare tutte le persone che ha incontrato nelle carceri italiane. Cita a tal proposito una bella espressione di san Giovanni XXIII: “Se incontri un viandante non chiedergli da dove viene, domandagli dove sta andando” e poi ne aggiunge una di Dietrich Bonhoeffer: “Dobbiamo ascoltare con l’orecchio di Dio, affinché ci sia dato di parlare con la Parola di Dio”.
Brusca inizia a descrivere il contesto in cui è nato e cresciuto, intriso di criminalità, influenzato da una famiglia che considerava le forze dell’ordine nemiche e la mafia come l’unica possibilità. Racconta gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza nel suo paese in provincia di Palermo San Giuseppe Jato. Quelli in cui alcuni incontri fatti e altri non fatti lo hanno segnato definitivamente. Alla scarsa dedizione allo studio faceva da pendant l’invito del padre ad andare a lavorare in campagna, occupazione a suo avviso più utile che non quella di andare a scuola. Ci si mise di mezzo anche un rapporto di preferenza accordato – a suo dire – al fratello, che fece studi superiori mentre lui, poiché non dava buoni risultati a scuola, fu spedito a custodire le pecore della famiglia. C’è spazio anche per i ricordi della frequentazione della parrocchia e della sua disponibilità a fare il chierichetto ed accompagnare il parroco nella benedizione delle case. Ma poi quel legame si ruppe.
Nell’oratorio parrocchiale si giocava pallone. “Un giorno capitò che per non perdere la partita dopo la messa mi rifiutai di andare a casa a prendere i soldi che avevo dimenticato di portare con me e che sarebbero serviti all’acquisto di un trofeo che si stava organizzando”. L’insegnate fu irremovibile, Giovanni fu costretto a tornare a casa a prendere i soldi e al ritorno per la rabbia glieli buttò in faccia. La mamma lo costrinse a chiedere scusa, ma lui era convinto di avere ragione e da quel giorno con quella parrocchia ruppe ogni rapporto.
In questa parte centrale del libro c’è molto spazio per il rapporto con il padre, un padre-padrone, quasi sempre al confino e quindi incapace di dare una qualsiasi educazione ai figli. I rari incontri erano o mediati dalla madre o avvenivano in occasione delle poche visite che poteva fargli in carcere. Vi sono descrizioni molto dure, difficilissime da comprendere oggi, che però erano strutture portanti dell’educazione familiare e sociale di quegli anni e di quell’ambiente.
Il padre era un fedelissimo di Totò Riina e Giovanni visse per anni con il suo mito. A Riina tutto si doveva e Riina era in grado di risolvere tutto. Affiliato a 19 anni, Giovanni diventò presto uno degli esecutori più spietati di Cosa nostra, convinto di servire una causa più grande di lui. “Pensavo di aver toccato il cielo con un dito”, dice, riferendosi all’incontro con Riina, che considerava come un Dio in terra. Ma la disillusione arrivò quando scoprì che Riina stesso voleva eliminarlo. Infatti, sempre negli anni giovanili, prese una iniziativa criminale senza chiedere il permesso al boss. Una cosa di poco conto, a suo dire. Ma Riina decise di fargliela pagare, promise di ucciderlo.
Di questa vicenda Brusca seppe molti anni dopo, attraverso un ritaglio di giornale. Il mito cominciò a vacillare, iniziò a ritenere che Riina, la mafia e tutto quel mondo forse non era “quel bene” per cui voleva battersi. Tentò di chiedere ragione di tutto ciò al padre, ma era impossibile incontrarlo, visto i lunghi periodi di detenzione. Ci riuscì in carcere molti anni dopo e attraverso il suo silenzio, espressione tipica del linguaggio mafioso, comprese che anche per lui Riina non era poi tutto. “Sono diventato un mostro per vendere l’anima a Cosa nostra… Perché credevo in Totò Riina, e poi scopro che voleva farmi fuori. E allora mi sono chiesto a cosa fosse servito fare tutto quello che avevo fatto per un uomo che io vedevo come fosse Dio in terra. È vero, Cosa nostra scomparirà se i suoi capi resteranno senza eserciti“.
La parte centrale e più corposa del libro è dedicata ad alcune ricostruzioni dei più efferati delitti compiuti da Brusca, primo tra tutti quello del piccolo Di Matteo, e poi quello di Giovanni Falcone e della sua scorta e di tanti altri. Ma c’è spazio anche per avvenimenti meno noti, come il suo incontro con Rita Borsellino avvenuto nel 2008 in una località segreta, tappa cruciale per imprimere una svolta nella sua travagliata collaborazione con la giustizia.
La narrazione evidenzia e descrive come la violenza e il potere siano stati per lui un sistema di vita. Una vita fatta di omicidi, tradimenti e una continua escalation verso la distruzione, che passa attraverso l’accettazione delle proprie colpe. Brusca afferma ripetutamente di avere piena consapevolezza del male fatto e della sua irreversibilità. Forse la frase che più sinteticamente esprime il suo pensiero è quella riportata nella fascetta della copertina del libro: “Io lo so che per me non ci potrà mai essere perdono”.
Brusca non dimentica di ringraziare alcuni magistrati che hanno creduto al suo ravvedimento e che gli hanno dato fiducia e sostegno nel suo percorso. Dopo l’arresto, infatti, ha cominciato a parlare acquisendo lo status di collaboratore di giustizia e, come ha insegnato proprio Giovanni Falcone, questo strumento è l’unico vero grimaldello per mettere definitivamente in ginocchio un’organizzazione ancora potente come la mafia siciliana. Adesso vive in una località segreta e ha 67 anni. Tanto altro c’è nel libro, ma è bene che il lettore lo scopra direttamente.
Giungiamo così alla parte finale, in cui don Marcello riprende il filo delle riflessioni iniziali ed esprime interessanti giudizi con cui tutti dovremmo confrontarci.
Afferma innanzitutto che di questi delicati e controversi argomenti desidera parlare, ma aggiunge che avverte un “profondo senso di timore”. Precisa poi che ha paura della retorica (ma quanta retorica c’è in tante nostre descrizioni sull’argomento!), “delle scontate semplificazioni, come quella di quel boss della ndrangheta recluso in regime di 41 bis che un giorno quasi a sfidarmi mi disse: ‘Voi preti non potete giudicarci, dovete solo perdonarci’ che poi è il pensiero di tanti e tanti credenti. O come quelle di chi ‘a cadavere ancora caldo’ chiede a chi piange per una vita che gli è stata strappata se è disposta a perdonare; e peggio ancora ho paura di quanti dettano i tempi, i modi e le forme di come chiedere perdono a quelli che si sono sporcate le mani di sangue”.
Sono pochi quelli che intrattengono rapporti con i mafiosi, ma sono tantissimi quelli che si sentono in diritto di dettare le regole per gli altri. Grande sconcerto ha destato a tal proposito la dichiarazione del nonno di Riccardo, il ragazzo omicida di Paderno, quando ha affermato: “Aiuteremo nostro nipote, ha bisogno di capire perché l’ha fatto”.
Nei recenti e purtroppo ricorrenti omicidi di donne, bambini, genitori, figli, vi è una sorte di accanimento nel voler chiedere e ottenere subito giustizia, soprattutto invocando l’ergastolo. Perché è il modo più semplice per esorcizzare il male e chi lo ha compiuto, ritenendo erroneamente che la sua negazione comporti la sua eliminazione. Ma i processi di esorcizzazione finalizzati alla dimenticanza sono tanti: si pensi alla morte in genere, alla malattia e a tutto quanto può inficiare il tentativo di vivere in una bolla in cui ci si illude che il bene possa prevalere sul male. Una volta l’icona più invocata era quella della famiglia del mulino bianco, o andando indietro nel tempo, quella dei fidanzatini di Peynet. Oggi nessuno ci crede più.
Tornando al tema, don Cozzi dice: “Insomma, quello che più temo è questo violare l’intimità delle persone, sia che si tratti di vittime che di carnefici. Quel non considerare che in ogni caso si tratta sempre di percorsi così interiori la cui maturazione e i cui tempi, per quanto mi riguarda, mi evocano fortemente la sacralità di quella terra sulla quale il Dio della Bibbia chiede a Mosè di togliersi i sandali prima di entrarci”. E più volte torna a ricordare il percorso di Agnese Moro dopo l’uccisione del padre.
Don Marcello affronta per ultimo il tema del perdono come Brusca lo ha percepito e lo vive adesso. È bene che col massimo rispetto il lettore legga la pag. 171. Brusca dopo varie ipotesi conclude: “E allora mi dico che l’unico modo per rispettare il dolore che ho creato è stare in silenzio. Ma anche questo mi viene condannato. … Non parlo … non perché non avrei niente da dire – anzi – ma piuttosto perché ho paura che le mie stesse parole possano cadere nella retorica”. Ma viene da aggiungere: il rischio della retorica lo corre solo lui o piuttosto tutti noi?
L’autore finisce citando Falcone e Borsellino con le frasi, ampiamente note, del rispetto che entrambi nutrivano per tutti i mafiosi, anche per quelli che non collaboravano.
Don Cozzi conclude ponendo la più dura e più difficile domanda che accompagna l’uomo su questa terra, da Caino e Abele in avanti: “Ma dov’era Dio in quella circostanza?”. E Brusca chiede: “Quando qualche volta mi capita di rivolgermi a Dio, non solo gli chiedo perdono per tutto il male che ho commesso, ma gli faccio sempre la stessa domanda: perché me lo hai permesso?”. E don Cozzi aggiunge che questa stessa domanda se la sono posta i familiari delle tante vittime della violenza dilagante nella nostra società: “Perché Dio non ha fermato quelle mani omicide?”.
Concludiamo con una testimonianza diretta. In un incontro al Meeting di Rimini di quest’anno, Valerio Montalbano, figlio di una vittima di mafia uccisa da Giovanni Brusca, ha affermato: “Di fronte a questa persona …. capisco che io non sono diverso da questa persona. Sia io che lui siamo stati battezzati in Cristo, sia io che lui ci siamo fatti almeno una volta il segno di croce, sia io che lui abbiamo ricevuto almeno una volta il Corpo di Cristo. Siamo più simili di quanto io stesso non riesca ad immaginare, perché siamo stati fatti simili da Chi ci vuole bene così come siamo, senza compromessi, senza condizioni, senza patteggiamenti, senza accordi, senza remore. Sia io che lui siamo voluti bene semplicemente perché esistiamo, sia io che lui siamo voluti talmente bene che siamo sempre lasciati liberi di rinnegare questo amore, siamo sempre lasciati liberi di rifiutare la mano tesa, siamo sempre lasciati liberi di allontanare chi ci sostiene, siamo sempre lasciati liberi di imprecare contro chi ci aiuta, siamo sempre lasciati liberi di decidere in ogni istante cosa farne della nostra vita. Sia io che lui di fronte a tutto il male che abbiamo già commesso, sia io che lui di fronte a tutto il male che stiamo commettendo, sia io che lui di fronte a tutto il male che ancora commetteremo, abbiamo bisogno entrambi come Pietro solo di piangere amaramente per la consapevolezza della nostra debolezza e di uno sguardo buono che ci abbracci così come siamo, e che ci chiede sempre: mi ami tu?”.
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