L’abbattimento delle Vele di Scampia non è una vittoria. Non lo è neanche per quei pochi che, quando era scomodo, ebbero il coraggio di criticare l’ortodossia architettonica e urbanistica dell’ultimo cinquantennio in Italia, ricavandone gli sbeffeggi degli apparatchiki accademici, salottieri, para-intellettuali: ignoranti, passatisti, destrorsi, nemici del progresso (S. Serafini, “Abbattere Corviale è di destra o di sinistra?”, Studi Cattolici, 592, giugno 2010). Tra costoro ricordo i professori Ettore M. Mazzola, Gabriele Tagliaventi e Nikos Salingaros. Quest’ultimo si guadagnò ostracismo e derisioni per aver affermato un’ovvietà: “Corviale, Le Vele, e gli altri ecomostri costruiti seguendo il pensiero totalitario di Le Corbusier, sono crimini contro l’umanità”.



L’architetto Franz Di Salvo riteneva di riproporre “la cultura del vicolo” con le sue Vele, così come Vittorio Gregotti “la vita di comunità tipica degli ambienti rurali” negli isolati dello Zen palermitano. Quanta desolante arroganza, coltivata fra accademie, riviste, premi e collaborazioni. La visione di un’architettura che cala dall’alto a decidere cosa sia il giusto e il bene (e dunque anche il bello) per masse di esseri umani trattati come formiche ebbe la spudoratezza di rifarsi nominalmente all’architettura incrementale, civica, dal basso, che al contrario di questi maestri del cemento aveva felicemente coltivato città mediterranee per due millenni. Il piano modernista, la zonizzazione come dominus che spartisce le acque del pubblico e del privato, annichilendo il comune al quale pretende di sostituirsi, genera mostri ai quali non sa neppure dar nome.



Cosa dovremmo dunque festeggiare? Che ci si sia finalmente arresi all’evidenza di quanto siano stati folli cinquanta e anzi settant’anni di urbanistica e architettura antiumane e ghettizzanti spacciate per forme di progresso? Che i difensori di un’ideologia decrepita e pericolosa stiano andando, finalmente, tutti in pensione? Che siano falliti i tentativi disperati di sostenere i simboli di tale ideologia, fino a ricorrere alla “resistenza” burocratica nei corridoi ministeriali coi tentativi di rendere intoccabili le Vele di Napoli (2010) e il Corviale di Roma (2011) facendoli nominare “monumenti nazionali”? (S. Serafini, “Al Corviale e alle Vele i soldi di Pompei?”, Biourbanistica, maggio 2011).



Le macerie di cemento, ferro consunto e amianto che abbiamo visto in tv non appartengono alle Vele: sono i pezzi dell’Italia che si sbriciola e crolla come il Ponte Morandi, come il sistema infrastrutturale nazionale, e come l’edificio civile tutto di un Paese che ha ridotto la propria politica a gazzarra da social media, la propria economia al più cinico consumismo da fondo del barile, e la propria cultura a un collage di marchette e cerotti.

L’inevitabile fine dei sogni di Di Salvo, Gregotti, Fiorentino (oggi l’uno, domani gli altri, se non altro per ragioni anagrafiche più la carbonatazione del calcestruzzo) non chiude la tragedia della fine della città, così come non la chiuderà la costruzione eventuale di nuove “velette” ricamate al loro posto, sicuramente più addomesticate al gusto contemporaneo della pubblicità, per “ricucire”, di un corpo urbano devitalizzato e metastatizzato, i pezzi già in armi gli uni contro gli altri.