Una vita sentimentale tumultuosa e un’esistenza colpita dalla grande storia: crollo dello zarismo, seconda guerra mondiale, censura sui crimini nazisti commessi in Unione Sovietica. Tanta vita e troppa storia segnata da cicatrici e lutti di massa. Vera Inber, ebrea nata ad Odessa nel 1890, con una traiettoria personale drammatica, costruita vivendo momenti terribili. Il suo attraversamento del tempo viene ricostruito con intensità da Francesca Gori nell’introduzione a Quasi tre anni. Leningrado, cronaca di una città sotto assedio (Guerini e Associati, 2022).



Il drammatico testo di Vera Inber fa parte della bella collana Narrare la memoria, nella quale è presente anche il commovente libro di Lidija Ginzburg, Leningrado. Memorie di un assedio. All’interno del progetto culturale, curato da Memorial Italia e già in fase avanzata, sono state pubblicate opere inedite della letteratura dell’Europa Orientale, che ci riportano alle sofferenze del cuore dell’uomo e alle sue domande di senso. La curatrice dell’opera mette in risalto, perciò, il travagliato cammino storico della scrittrice. Il padre di Vera Inber, infatti, era cugino di Lev Trockij, fatto uccidere da Stalin in Messico. La sua esistenza, per questo motivo, fu sempre in salita. Veniva vista con sospetto ultimo dal potere sovietico, che la riteneva una potenziale oppositrice della mente totalitaria diffusa a tutti i livelli. Mantenne, tuttavia, la sua fede ideologica, cercando un’impersonalità che le consentisse di vivere e testimoniare quanto visto. E in Quasi tre anni emerge un giudizio nascosto che supera l’approvazione ideologica.



La scrittura tesa, sofferta e quasi singhiozzante di Inber tradisce la natura di un io indomabile. La sua opera non è perciò solo propaganda o celebrazione della resistenza all’invasore tedesca. Essa mette in luce l’uomo di sempre, di tutti i tempi e tutti i luoghi, che si trova di fronte all’ingiusta violenza dell’altro uomo. La dignità violata dalla guerra, imposta con forza al civile inerme e al popolo dichiarato nemico, si imbatte nell’angoscia. Un sentimento profondo soffoca l’io, che sente di poter diventare nulla in un non so quando e a causa di un non so perché. “Non so niente, tutto mi è di peso, tutto mi sembra spaventoso. Ho una gran paura, lo confesso senza falsa vergogna. Marietta ci ha raccontato che oggi i tedeschi erano molto vicini. Dovevo averlo percepito prima ancora di averlo saputo. I tedeschi hanno portato sulla ferrovia una potente batteria con cui hanno bombardato la città” (p. 90).



Il mondo di Leningrado viene invaso da un quotidiano terrore che lentamente si impossessa della mente, devastandola. “E nella camera estranea, con un rumore di esplosioni lontane, fui assalita da un terrore che non avevo mai provato in vita mia. Né a Žicharevo, né a Sitnyj, ho mai provato qualcosa di simile” (p. 89). Denutrizione, gelo, tremore sono compagnia di una vita rinsecchita dal dolore subìto. Il volto dell’innocente, percosso dalla guerra, sbianca per l’ormai prossima vicinanza all’esser terra. Si aggiunge ad esso il venir meno di una vita accerchiata e senza via d’uscita. “Vicino a me sedeva una donna, dall’incarnato giallo pallido, il respiro affannoso… Era il pallore dell’assedio” (p. 226).
Queste parole dure come pietre fanno rivivere per un attimo non fugace le morti di massa di una città massacrata dal male estremo. Per Vera Inber, tuttavia, la cattiveria dell’uomo non può censurare la domanda di vita che costituisce il cuore dell’uomo. “Ma la mia sensazione di angoscia è così forte che non riesco letteralmente a star ferma. Che ne sarà di me? Che ne sarà di noi? Non lo so” (p. 90). Ogni soggetto nella condizione più grave e degradante cerca di farcela, di vivere, di uscire, scavando dentro di sé o fuori di sé o per ogni dove, per oltrepassare il cunicolo del nulla. Oltre la terra che trema per i colpi del nemico o nel soffio vitale che sta per spegnersi, c’è forse un altrove, un’altra terra.

Il drammatico testo della scrittrice ci interroga oggi con straziante attualità. È infatti un potente richiamo agli assedi delle tante città ucraine che subiscono bombardamenti, distruzione e fame. Tutti dovrebbero leggere quest’opera, soprattutto gli invasori. Non per un dantesco contrappasso, ma per vedere se stessi nel venir meno dello sguardo di un altro. E fare memoria della propria ferita e della propria storia cancellata.

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