Storia di una trattoria, di tante amicizie e di un gruppo di fogli che sembrano fumetti e sono opere d’arte. La trattoria è Bagutta, l’osteria toscana di Alberto Pepori, aperta nel 1924 nell’omonima via al centro di Milano e chiusa qualche anno fa.  Scoperta nel 1926 da Riccardo Bacchelli e Adolfo Franci, aveva subito accolto un cenacolo di amici: quattro scrittori (Orio Vergani e Marino Parenti, oltre ai due scopritori), due pittori (Vellani Marchi e Steffenini), un avvocato noto per la sua generosità e, per qualche tempo, anche un ingegnere.



Intorno alla tavola della trattoria, che faceva credito volentieri agli illustri ma squattrinati ospiti, ci si ritrovava, si parlava, si discuteva. Quella che oggi chiamiamo pausa-pranzo, e che spesso è frettolosa e solitaria, diventa così l’occasione di un incontro. Ma non solo. Poche settimane dopo la scoperta dell’osteria il gruppetto di amici crea il premio Bagutta, il più antico premio letterario italiano. Negli anni il premio avrà fra i vincitori Gadda (che col Castello di Udine prevale sulle Sorelle Materassi di Palazzeschi) e Cardarelli, Penna e Sereni, Brancati e Landolfi, per ricordare solo alcuni nomi.



Accanto a scrittori e intellettuali però c’erano anche alcuni pittori, come Vellani Marchi, Bucci, Palazzi, Novello, Semeghini, Salietti, Monti e altri ancora. Allora erano tutti giovani, se non esordienti, eppure erano soprattutto loro, con le loro opere, a sostenere il premio Bagutta: un premio di cinquemila lire (non poco, in un’Italia che sognava “mille lire al mese”) che contava solo, oltre che sul credito a fondo perduto della trattoria, sulle offerte dei componenti del cenacolo, raccolte giudiziosamente in un salvadanaio di terracotta. Ricorda Orio Vergani: “Fu venduto una sera un disegno al miglior offerente. Il giorno dopo fu la volta di un pastello, di una tempera, di una statuetta. Gli acquirenti non erano dei ricconi: ma Bagutta vendeva anche a prezzo di occasione. I pittori e gli scultori si passavano la voce: e ogni anno furono quei dieci o quindici pezzi che dagli studi andavano in Bagutta […] per poter fare, una sera, un piccolo dono a uno scrittore molte volte ignoto”.



Spesso, poi, a Bagutta si tenevano delle serate in onore di qualche scrittore, artista, critico, uomo di teatro. In quell’occasione Vellani Marchi disegnava una Lista, cioè un foglio con la caricatura del festeggiato e le firme degli intervenuti: un allegro intreccio fra un album delle presenze e un diario della vita culturale dell’epoca, un gioco sospeso tra ironia e memoria che spesso superava i confini del foglio d’occasione per diventare una delle caricature più felici di quegli anni.

L’espressionismo senza aggressività delle Liste si distingue infatti, nel vasto mondo della satira, per un accento mite che convive con la deformazione e l’ironia. La loro genesi (una serata fra amici) dà a quei fogli un velo di bonarietà, capace però di non degenerare in buonismo. Così i ritratti, pur riflessi in uno specchio deformante, restituiscono un’idea affettuosa di satira, curiosamente adatta alla tavola imbandita cui erano indirizzati: la parola “satira” deriva infatti dal latino “satura lanx”, che in origine indicava un piatto di primizie destinate agli dei, e poi passa a significare,  metaforicamente, uno spettacolo composito di danze, recite e scherzi.

Insieme caricature, illustrazioni e fumetti, le Liste – oggi in deposito permanente all’Università Bocconi – sono un unicum nel panorama italiano degli anni fra le due guerre, ma anche degli anni successivi, in cui hanno continuato a esistere senza apparenti mutamenti. La conoscenza che di solito l’autore aveva dei festeggiati (una competenza sorprendente in tempi in cui l’informazione era più difficile e i dati meno accessibili di quelli, magari falsi ma immediati, di cui disponiamo oggi) tramuta la caricatura in una scherzosa enciclopedia illustrata, in un sorridente dizionario minimo. E così questi coloratissimi fogli, di cui a fine anno uscirà una antologia, edita da Allemandi, restano la testimonianza di un mondo che non c’è più, di una cultura che si esprimeva anche negli incontri conviviali, di una “amica ironia”, per dirla con Soffici, che si aggiungeva naturalmente alla matita e al pennello. Restano la testimonianza, ancora, di una famiglia di petits-maîtres che con autenticità e maestria seguivano un proprio percorso, non dimenticando mai l’intelligenza della linea e del colore, e la sapienza della leggerezza.