È opinione comune che dopo la fine della seconda guerra mondiale il mondo abbia goduto di un lungo periodo di pace, almeno sino all’11 settembre 2001, il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle.
Purtroppo non è vero.
Il conflitto arabo israeliano è del 1948-1949. La guerra di Corea comincia l’anno successivo e finisce nel 1953. Quella del Vietnam va dal 1964 al 1975; quella dei Sei giorni ai sviluppa nel 1967; quella tra Iran e Iraq nel decennio 1980-1989; quella delle Falkland nel 1982; la prima guerra del Golfo è del 1990-1991; quelle balcaniche vanno dal 1992 al 1995. L’invasione dell’Iraq comincia nel 2003. Da 2001 al 2021 c’è stata l’invasione dell’Afghanistan conclusasi con la fuga precipitosa che tutti ricordiamo.
Abbiamo rimosso la verità per due ragioni.
Subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale tutti erano proiettati verso un futuro di crescita e di benessere. Si voleva solo guardare avanti. La parola guerra faceva temere il ripetersi del già vissuto. Primo Levi ha raccontato del fastidio con il quale erano accolti i sopravvissuti dai lager. Einaudi respinse per due volte la pubblicazione di Se questo è un uomo; una prima volta per decisione di Natalia Ginzburg, una seconda volta per decisione di Cesare Pavese. Infine Se questo è un uomo venne pubblicato da una piccolissima casa editrice, Da Silva, diretta da Franco Antonicelli in sole 2.500 copie.
In una seconda fase, dopo la fine del bipolarismo internazionale, con i maggiori Paesi occidentali direttamente coinvolti, l’indifferenza non era più possibile. Siamo perciò ricorsi all’illusionismo giuridico. Abbiamo preferito parlare di intervento umanitario (marzo 1999, a protezione della popolazione albanese oggetto di persecuzione in Kosovo da parte del governo di Belgrado); di polizia internazionale (marzo 2003, invasione dell’Iraq di Saddam Hussein), e poi, secondo i casi, state building, nation building, esportazione della democrazia. Lo ha fatto anche Putin, chiamando operazione militare speciale la guerra in Ucraina.
Di fronte a tragedie che non riuscivamo né a prevenire né ad affrontare, abbiamo utilizzato il diritto in una delle sue funzioni primarie, come lavatrice della storia. Il diritto è una straordinaria invenzione; nella sua apparente neutralità, tranquillizza gli animi, lava il fango e il sangue, parifica in astratto ciò che è diseguale in concreto, deodora gli avvenimenti, ne neutralizza la tragicità attraverso eleganti definizioni, li colloca in categorie apparentemente oggettive e mette il tutto a disposizione della sapienza del giurista. Sarà poi l’ordine giuridico a spiegarci quale morte è stata giusta e quale ahimè ingiusta, come se questa distinzione possa contare qualcosa, dopo la morte.
Juristen böse Christen (Giuristi, cattivi cristiani), diceva Lutero.
Oggi non possiamo più mentire a noi stessi. La vita è perdente; la morte domina il nostro tempo. Intere generazioni di giovani sono uccise, dall’Ucraina a Israele a Gaza, dal Nagorno Karabakh allo Yemen. E tacciamo delle vite dei giovani russi mandati a morire da Putin. Come se stare, giustamente, con gli ucraini ci debba rendere indifferenti di fronte alla morte dei loro coetanei russi.
La morte domina il nostro tempo non solo a causa della guerra. Oltre alle guerre ci sono le morti per migrazione. Altre generazioni di giovani muoiono affogate nel Mediterraneo, nei pressi di Lampedusa o delle isole greche o turche o in quelle vicine all’Australia, o al confine tra Messico e Stati Uniti. Muoiono abbandonati nei lager nordafricani o per sete nel deserto. Le cronache ci raccontano della morte per freddo sulle rotte balcaniche, sui valichi tra Italia e Francia o nelle foreste tra Bielorussia e Polonia.
C’è infine una terza morte, una “piccola morte” che sta accanto alle “grandi morti”. In molti Paesi civili, procurarsi la morte “come ordinaria alternativa alla vita”, non più eccezione, ma regola, anima una tendenza a favorire forme di auto-soppressione volontaria come soluzione per una vita difficile. Non mi riferisco ai casi limite delle malattie inguaribili che procurano una vita incompatibile con qualsiasi parametro umano. Mi riferisco alla tendenza alla banalizzazione della morte.
In Canada il suicidio assistito è possibile per chiunque sia maggiorenne e abbia dichiarato di patire una sofferenza di qualsiasi tipo che ritiene soggettivamente insostenibile. Una ricerca svolta in quel Paese nel maggio 2023 ha rilevato che il 28% dei cittadini canadesi sarebbe d’accordo con l’ipotesi di approvare la richiesta di suicidio assistito da parte di persone senza dimora. Il 27% ha dichiarato inoltre che sarebbe d’accordo con la legalizzazione dell’accesso alla Maid (Medical Assistence in Dying), se l’unico motivo di afflizione fosse la “povertà” – senza alcuna malattia in corso.
“Secondo la Canadian Medical Association, l’eutanasia potrebbe far risparmiare 139 milioni di dollari ogni anno”.
Propagandare la morte diventa politica di bilancio. Una inchiesta del giornale olandese Volkskrant del 17 giugno 2023 rivela che ogni anno nei Paesi Bassi vengono eseguita 115 eutanasie relative a persone che “soffrono psicologicamente”.
In Italia nel 2021 venne proposto un referendum, poi dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale, che, sotto l’etichetta “eutanasia legale”, tendeva a legittimare l’omicidio del consenziente, con lo scopo di garantire a tutti il diritto di farsi uccidere (art. 579 cp). Il referendum rendeva possibile ogni forma di omicidio del consenziente, anche se commesso con mezzi violenti e anche se determinato, ad esempio, da una depressione, un fallimento finanziario, una delusione sentimentale, una momentanea fragilità psichica. Nell’agosto 2021 un affermato giornalista scrisse su un quotidiano nazionale a proposito del Covid: “Non capisco proprio perché per salvare dei settuagenari od ottuagenari, in genere affetti da due o tre gravi patologie, sia bloccata la vita di intere generazioni a cui il Covid non poteva far nulla. Che muoia chi deve morire e smettiamola con questa tragica farsa” (Massimo Fini, Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2021). Queste posizioni aprono la porta a nuove drammatiche disuguaglianze, nelle quali la durata della vita dipende dal reddito.Oggi il costo di una giornata di degenza in una struttura dedicata alle cure palliative è di circa 300 euro e quello di una giornata di ricovero in un ospedale pubblico è di circa 470 euro. Quale sarebbe il destino dei malati vecchi e poveri in una società che invecchia, con una sanità costosa, dove la vita non sia il valore prioritario, dove circolassero idee come quelle sopra indicate e dove diventasse possibile sopprimere chiunque, opportunamente orientato, lo consenta?
Pur con tutte le diversità, da Gaza a Israele, da Kiev allo Yemen, dal Mediterraneo alle foreste dei Balcani, dal Canada al Belgio e non sappiamo se domani, anche in Italia, la morte diventi soluzione tanto per i problemi della politica quanto per i problemi della società.
D’altra parte, Paesi che nei propri confini favoriscono la morte, o sono indifferenti rispetto alla difesa della vita, non possono credibilmente sostenere nelle trattative internazionali il rifiuto della guerra per la difesa della vita.
Le questioni della morte e della vita andrebbero giudicate non con la miserabilità del metro giuridico, ma con quello del destino dell’uomo, del futuro del genere umano, delle ragioni del vivere. Si sceglie la banalizzazione. La morte, vestita di dignità, maschera nuovi egoismi e rivela antiche incapacità.
C’è qualcosa di comune in tutte queste morti e nella condizione umana che le contiene. È il rapporto tra la vita, la morte e le sovranità che decidono dell’una e dell’altra.
Il nostro è un potere politico costituente che non diventa potere costituito perché non riesce a dominare i fattori. Di qui nasce il caos, l’ingovernabilità, che sfocia inevitabilmente nella guerra, nella discriminazione o nell’abbandono.
La parabola del Samaritano non ci ha insegnato nulla. Sul bordo di una strada una persona giace, aggredita dai briganti. Un sacerdote e un levita, timorati di Dio, ossequiosi ai riti, passano, si avvicinano, guardano e vanno oltre. Li motiva la convenienza, la paura di esporsi, non sanno se davvero quel ferito merita pietà. Passa un samaritano, che appartiene ad un popolo disprezzato perché considerato impuro. Il samaritano si avvicina e patisce la contorsione delle viscere, lo “splagchnizomai”, come dice il Vangelo di Luca (10, 25-37). Perciò si ferma, lo soccorre e salva sé stesso perché, anche se non crede in Gesù, l’amore salva chi ama. Ma noi non patiamo lo “splagchnizomai” del samaritano. Facciamo come il levita e il sacerdote, sicuri della nostra buona ragione, tiriamo diritti per la nostra strada. E la morte diventa più forte.
Le democrazie non riescono a sciogliere il groviglio. Gli inseguiti, i fuggitivi, i profughi, i poveri, sono diventati un indistricabile problema politico.
Levare l’indice ammonitore, accusando questa o quella forza, è ridicolmente presuntuoso. Ma tacere è tragicamente irresponsabile.
Questa è la nostra impotenza. Il tema del sostegno alla vita deve diventare un valore assoluto. E nelle politiche interne bisogna evitare equivoci, come le cosiddette campagne per la vita, apparentemente vestite di religiosità ma in realtà intrise di bigottismo e di violenza discriminatoria.
Un’etica della vita deve prendere le mosse dalla dignità in sé della vita, anche a prescindere da valutazioni di ordine religioso: la vita è il presupposto essenziale per la stessa appartenenza al genere umano e non è riproducibile dopo la morte. La soppressione della vita non prevede correzioni, né atti d’appello. È definitiva; non si può più tornare indietro. Ciò che non può essere riprodotto, come la vita, diventa degno di rispetto non solo per quello che rappresenta, ma anche per la propria irripetibilità.
Bisogna rovesciare nelle trattative internazionali come nei dibattiti interni la forza della morte e la debolezza della vita. I governi potrebbero attuare politiche dell’infanzia, della formazione, della salute, del lavoro non separate l’una dall’altra, ma integrate l’una nell’altra, tutte orientate alla tutela della vita.
Oggi si chiede la pace. Ma la vita è più della pace perché si occupa delle persone, mentre la pace si occupa degli Stati.
Le ragazze iraniane rischiano il carcere gridando “donne, vita, libertà”; non vogliono la pace, vogliono la vita, perché dalla vita nasce la libertà; forse sono più avanti di noi.
Talvolta mi sorprendo a pensare a quanto somiglino tra loro i corpi di chi sfuggiva alla strage del 7 ottobre, di chi sfugge alle bombe su Gaza, di chi si perde nel Mediterraneo.
Il fuggitivo è diventato un simbolo del nostro tempo; si fugge dal nemico che vuole uccidere, dall’intollerante che vuole scacciare, dalla fame che attanaglia, dall’oppressione che vuole un nuovo schiavo. Quelli che scappano si somigliano tutti.
I fuggitivi sono gli indesiderabili del XXI secolo. Racconta Hannah Arendt che l’organo ufficiale delle SS, lo Schwarze Korps, scrisse nel 1938 che se il mondo non era ancora convinto che gli ebrei erano la feccia dell’umanità, si sarebbero ricreduti quando una schiera di mendicanti non identificabili, senza nazionalità, senza danaro, senza passaporto, avrebbe attraversato i confini. È quello che avviene con i fuggitivi. Li isoliamo, li facciamo vivere in condizioni impossibili, come è risultato da ultimo a Milano, e poi li indichiamo come pericolosi apportatori di disordine. Le politiche della immigrazione possono essere politiche di vita, ma possono diventare politiche di morte.
Nella storia d’Europa, tra tragedie e trionfi, sono nati i diritti dell’uomo. E in Europa li abbiamo difesi e sviluppati come forse in nessun altro continente, a cominciare dall’abolizione della pena di morte. Per questa ragione l’Europa ha una propria specifica legittimità a porre il problema della sconfitta della morte e del diritto alla vita. La politica deve presentarsi come arkè, non come kratos; legittimata non per l’esercizio della forza, ma perché fondata sulla persuasione e sul consenso; perché è frutto di ragionevolezza, che è cosa diversa dalla razionalità.
La politica come arkè è sapienza capace di leggere la funzione della vita nella condizione umana e di espellere il silenzioso protagonismo della morte. Ma non lo facciamo. Sembra sia diventato scandaloso difendere la vita. Sembra diventato inaccettabile porre ai governi la difesa della vita come problema politico.
La globalizzazione finanziaria, il progresso scientifico, lo sviluppo tecnologico sono caratteri distintivi degli ultimi decenni. Un processo che ha alimentato un senso di fiducia nella scienza e di subalternità alla tecnica. Ne è derivato quello che Max Weber aveva definito “disincantamento del mondo”, la secolarizzazione.
Ne sono derivati l’individualismo esasperato e la crescita di gerarchie di interessi privati. Una delle conseguenze è il relativismo nei confronti della vita e della morte.
Io non credo che dobbiamo rassegnarci. Difendere la centralità della vita significa uscire dalle gabbie del relativismo e proporre nuove gerarchie di valori.
Riprendo il tema della irriproducibilità e prescindo dal divino, perché può bastare l’umano. La vita è il fondamento di tutto ciò che esiste, della creazione e della trasformazione del mondo, della conoscenza, della civilizzazione, della continuità della specie. Questo è il nomos della vita. Molte cose si possono ricostruire, una volta distrutte. Ma la singola vita è irricostruibile. Quella vita che ha cessato di essere tale non è sostituibile, non può più pensare, non può più amare, non può più agire. Questo è un problema della intera società, non è il problema del solo titolare di quella vita. Perché dove prevale la morte non c’è futuro, vincono la solitudine e la disperazione.
Respingere le politiche di morte, dovunque esse si pratichino, è il primo passo per ritrovare il senso della vita, e per guardare con fiducia al futuro.
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