Nel dibattito pubblico del nostro tempo tornano ad accendersi periodicamente i conflitti su come le diverse identità presenti nel consorzio sociale possono contribuire a modellare i lineamenti dell’ordine etico e politico-giuridico che inquadra la convivenza di tutti nello spazio comune. Il confronto si fa tanto più spigoloso quanto più investe ambiti delicati e princìpi ritenuti essenziali, su cui la mentalità moderna ha fatto emergere una divaricazione molto pronunciata di posizioni tra i diversi attori presenti sulla scena collettiva. Dove si addensa la necessità di definire cosa sia lo specifico della vita umana, fin dove si spingano le possibilità di piegarla al servizio delle proprie libertà e delle proprie aspettative e come si debbano esprimere, nella sua cornice, le esigenze più elementari e costitutive dell’esistere, qui si creano inevitabilmente fronti di attrito che alimentano lo scontro e mettono in crisi il senso dell’appartenenza reciproca.
I dilemmi più tormentati sono quelli che si intrecciano intorno alle implicazioni del nascere e del morire, al senso e alla natura propria dello strutturarsi dei legami familiari, alla libera autonomia degli individui nella gestione delle inclinazioni affettive, al peso di oggettività vincolante riconoscibile nella connotazione sessuale che orienta la fisicità dell’essere persona partendo dalle sue basi biologiche più materiali.
Le controversie maturate nell’Occidente del benessere consumista e secolarizzato sul tema della presunta plasticità modificabile del “genere”, che tende sempre più diffusamente, in modo pervasivo e sempre più difficilmente contestabile, a essere immaginato come un codice psicosociale di carattere largamente arbitrario, frutto di sedimentazioni culturali esposte a continue smentite e correzioni radicali, sono il sintomo forse più eloquente di questo cambiamento di clima che ha investito i presupposti, fino a qualche tempo fa scontati e inattaccabili, di un sentimento condiviso di civiltà.
Nella Babele della contemporaneità, le regole del sistema globale del vivere sono state rimesse in discussione, a cominciare dalle loro fondamenta antropologiche. Essere “persona” non è più un concetto univoco e ci si divide su cosa voglia dire esattamente non solo “vivere”, ma anche essere “uomo”, “donna”, essere “famiglia”, generare nuova vita degna di essere accolta e fatta progredire.
È del tutto evidente, però, che la diatriba sui fondamenti umani dell’essere in società è solo l’esito estremo di uno sviluppo che affonda le sue radici in processi di trasformazione risalenti molto all’indietro nel tempo per le loro origini e le loro spinte iniziali. Ed è altrettanto pacifico che a essere chiamata in causa in prima fila, all’interno di queste gigantesche metamorfosi epocali della mentalità e del costume, è stata la coscienza religiosa: la sorgente che per secoli ha nutrito, tra Europa e continente americano, la costruzione dell’ethos che poi si riversava nelle impalcature normative del cosmo sociale, nell’esercizio dei poteri che lo governavano, più in generale nella fissazione dei grandi argini entro i quali prendeva forma l’esperienza umana nel suo insieme.
Di fronte ai segnali di erosione che hanno via via logorato e poi minato dalle sue basi l’impianto della modernità nata nel flusso storico della cristianità, la prima reazione dei difensori del patrimonio genetico tradizionale è stata la battaglia di resistenza, finalizzata alla riconquista del terreno perduto. Se l’evoluzione del moderno, in particolare della politicità moderna, aveva preso una piega sbagliata, bisognava innalzare, contro di essa, robuste dighe di contenimento. L’esigenza primaria era fermare l’alluvione distruttiva, incanalare il prorompere impetuoso del futuro dentro un nuovo solco cristiano.
Il modello restava la dura lex di una norma che doveva essere unica e invalicabile per tutti, e su questa doveva poggiare la riedificazione di un ordine sociale sacralizzato, in cui l’autorità religiosa, per non venire meno ai suoi compiti, si sentiva chiamata a interferire con tutte le altre forme di potere e di controllo della vita pubblica, rimettendosi al centro dell’universo umano: un’unica verità possibile, un unico criterio di valore, una sola forma di dipendenza, valida congiuntamente senza possibilità di eccezione per alcuno, da un unico punto di autorità ultima.
Il progetto di quello che potremmo definire un “monismo” ancora di matrice confessionale, refrattario ad accogliere il pluralismo delle opzioni e il rischio delle libertà degli individui, ha accompagnato molto a lungo il conservatorismo cristiano dei secoli scorsi: dalle battaglie contro lo spirito rivoluzionario e il dispotismo dello Stato moderno laicizzato dell’ultimo Settecento e dell’Ottocento fino ai sogni di restaurazione di una cristianità monolitica e integrale sotto l’egemonia della regalità sociale di Cristo, innalzata a pilastro di un impossibile ritorno all’indietro delle lancette della storia.
Ma più la modernità ha fatto il suo corso, più la riappropriazione in chiave cristiana delle coscienze private così come del teatro della vita pubblica si è rivelata insostenibile. Il divorzio si era reso ormai troppo pronunciato, e invece di contrapporsi al moderno per tentare di assoggettarlo, si cominciò a capire che bisognava, piuttosto, farsi spazio all’interno di esso, per correggerne le storture e riempirne le vistose lacune, ma muovendosi sul suo stesso terreno.
Questo cambio di atteggiamento della coscienza religiosa si è pienamente assestato solo nell’ultimo dopoguerra, in particolare dal concilio Vaticano II in poi. Si può dire che il mutamento di registro abbia coinciso con il passaggio dalla prevalenza dello scontro polemico e dalla logica della ricolonizzazione alla ricerca sempre più estesa di una convergenza. La via maestra di un nuovo tipo di innesto del principio cristiano dentro il tessuto della modernità divenne la valorizzazione della convenienza umana, o in altre parole la promozione dell’armonia tra la difesa degli elementi costitutivi della proposta di vita cristiana (la sua idea di persona, di libertà, di dignità, di espressione dell’amore e dello spirito di giustizia, di ordine collettivo, di bene comune) e l’interesse autentico della persona in quanto tale, riconoscibile non soltanto restando chiusi nel recinto della cittadella del sacro, ma inoltrandosi anche sul versante, molto più largo e aperto, della struttura oggettiva dell’essere umano, delle sue condizioni obbligate di esistenza, o in altre parole della sua “natura”.
È per il bene generale dell’uomo, per la salvaguardia dei suoi diritti e dei suoi fini intrinseci che si è cominciato a parlare in termini nuovi di difesa della vita, di ordine giusto secondo cui configurare la realtà collettiva anche nei suoi risvolti economici e sociali, di tutela della famiglia e dei connotati originali, dichiarati accessibili e condivisibili a partire da ogni punto di vista soggettivo, prima e al di là delle distinzioni e delle divaricazioni di ordine ideologico, intellettuale e religioso, dell’affettività umana e della sua trama di bisogni e di desideri incancellabili.
La dottrina etica modificata nel suo armamentario tradizionale di sostegno ha trascinato con sé anche nuove modalità di impegno politico-operativo nell’arena delle lotte per l’egemonia nel governo della comunità sociale. Dalla battaglia apologetica, di parte, ci si è spostati sempre più decisamente verso l’universalismo della riconciliazione tra dimensione della fede e ricerca della sintonia con il bene comune della persona vista come entità definita dalla sua ontologia prestabilita, uniforme e comprensiva per tutti. L’opzione che sembrava vincente è diventata, a un certo punto, ragionare su un diritto alla vita puramente umano, su una base naturale della famiglia come istituzione, sulla naturalità dell’amare, del generare, del vivere e del morire.
Ma anche la via della dottrina sociale ancorata al dato di natura imposto dal realismo che si configura sulle linee di una condizione strutturale e condivisa di esistenza ha mostrato, alla prova della storia più recente, i suoi punti deboli vistosi.
(1 – continua)