La poesia è morta. O almeno tale è stata decretata dalla nostra controversa epoca. Troppo riflessiva, introversa, cervellotica per tenere il passo fulmineo che contraddistingue la vita dei decenni successivi al ’68. Eppure, a fronte di questa condanna senza appello, largamente condivisa, potrebbe spiazzare una considerazione difficilmente confutabile: oggi più che mai, corpose schiere di giovani poeti scelgono con coraggio di seguire l’accidentato sentiero che conduce al verso. Paradosso fra i paradossi del tempo che viviamo, certo: tuttavia notazione degna di una presa di coscienza che travalichi la semplice contezza o la superficiale indifferenza.
Perché, d’altronde, il trend delle case editrici che spalancano le loro porte alle prove artistiche di lirici più o meno navigati mostra una crescita costante? E perché un poeta come Davide Rondoni sceglie di far parlare di sé discettando di questioni relative alla poetica di Pasolini dinanzi ad una platea accorsa per assistere ad un comizio leghista? O, ancora, per quale arcana ragione i nostri tentativi di scovare una raffinata definizione del sentimento amoroso, oppure di carpire le giuste dritte sulle più suadenti espressioni da utilizzare al momento opportuno, ci conducono quasi unicamente agli scritti dei soliti noti Pablo Neruda o Jacques Prévert? No, la poesia non è affatto scomparsa: ha solo modificato il suo modo di comunicare. E il suo spazio d’azione.
L’arte di Euterpe non ama le grossolane strimpellate, gli annunci altisonanti e sguaiati che attualmente rasentano la normalità. Preferisce mimetizzarsi, camuffarsi, talvolta essere ombra piuttosto che corpo, voce invece che scrittura. Non è più tempo di vati esclusivi ed eccentrici alla Gabriele D’Annunzio: oggi tutti si ergono a portavoce di qualcosa. Manifestando, per di più, non solo la pretesa che le proprie conoscenze siano applicabili con fecondità ad ogni ambito del reale, ma anche che le proprie convinzioni incarnino indubitabilmente i crismi della verità. Altro non è che la deteriore dinamica di funzionamento dei social network: minata nella sua utilità non dal fatto che chiunque possa acquisire diritto d’opinione, ma dalla conseguenza che questa facoltà venga assunta come giustificazione per la demolizione del prossimo.
A cosa serve, pertanto, la poesia, se non c’è più alcuna verità che non venga percepita come posseduta? Cosa rimane di versi bistrattati e frammentati a mo’ di irriverenti tweet, quando non grottesco corredo di foto tutt’altro che aderenti al loro spirito originario? Già Guido Gozzano, con la lungimiranza e l’acume che gli erano propri, aveva sancito l’irreversibile svalutazione della poesia. In L’altro, infatti, il letterato torinese scriveva:
L’Iddio che a tutto provvede
poteva farmi poeta
di fede; l’anima queta
avrebbe cantata la fede.
Mi è strano l’odore d’incenso:
ma pur ti perdono l’aiuto
che non mi desti, se penso
che avresti anche potuto,
invece di farmi gozzano
un po’ scimunito, ma greggio
farmi gabrieldannunziano:
sarebbe stato ben peggio!”
Una vera epigrafe di autoaccusa, quella di Gozzano: che finisce col relegare sé stesso a sbiadita immagine affetta da una follia donchisciottesca – per giunta aggravata da una soffocante prosaicità –, ad inanimato scrittore indegno persino della lettera maiuscola per il suo nome, sfortunato perché incapace di fare altro se non comporre versi. Un’accusa, sì: ma anche una geniale illuminazione.
La poesia odierna è figlia di quell’intuizione gozzaniana. Sussurra all’orecchio, ma non per questo appare incapace di lasciare il segno. La sua presunta debolezza, individuata nella sua inadeguatezza, è in realtà la sua forza. La poesia sarà anche divenuta inutile per i più, misero anacronismo di un tempo che non ha più nulla da dire, relitto di una bellezza che non ha più presa salda sulle cose. Sarà anche ignorata e sottovalutata. Ma proprio in virtù di tutto questo la poesia può essere libera. Se non serve a nessuno, può svincolarsi da ogni forzatura, da ogni coercizione, da ogni bieca e opportunistica strumentalizzazione.
“Lasciatemi divertire!” inneggiava un altro genio, quell’Aldo Palazzeschi così amante della sperimentazione linguistica. In nome non di una richiesta di disimpegno, ma per sancire la certificazione di uno status. La poesia è libertà: non si piega ad alcuna finalità secondaria se non questa. Non indietreggia di fronte alla tronfia ipertrofia del presente: la sua opinione non è richiesta, non è attesa, e proprio per questo autenticamente incisiva. Dietro ogni tentativo di scoraggiamento, il poeta mantiene intatto questo compito: dire. Anche quando gli altri sostengono non sia possibile, anche quando restare in silenzio appare più semplice.
Per questo il mestiere di chi vive attraverso una rima continua a proliferare: perché la nostra realtà, ingabbiata nei suoi parossismi nonostante la sua patina tollerante, ha uno sconfinato e disperato bisogno di libertà. Di meno dannunziani e più gozzaniani.