“Che belle le vite infelici come quelle di Anna Achmatova”. Paolo Nori compie un’altra impresa, sfidando il tempo della guerra tra Russia e Ucraina cui assistiamo ormai da più di un anno, e lo fa con la stessa intensità dell’ultima fatica compiuta per ripercorrere la vita e l’opera del grandioso Dostoevskij in Sanguina ancora (Mondadori 2021).
Nori rende conto di un lavoro che dura fedelmente da anni, con cui interroga, guarda e teme i grandi letterati che hanno fatto grande la lingua e la storia russa, fino a diventare, la realtà letteraria in Russia, più vera della realtà vera. È un libro-dichiarazione, come molti altri dello scrittore emiliano, dichiarazione d’amore fedele e longevo con la grande Russia e le sue umane lettere, ma anche una provocazione e una sfida, personale e collettiva, con cui Nori tenta di rispondere a una domanda precisa: “Noi, che cosa siamo diventati?”. Che cos’è questa cultura della cancellazione (piuttosto che cancellazione della cultura) che impone la censura non appena sulla superficie della Storia un popolo, una comunità o un genere si impongono fuori dai diktat del perbenismo ideologico e della “purità” o della linearità, oppure (come accaduto) gravemente, certo, aggrediscono o entrano in conflitto con un altro Paese? perché un unico atto o un’unica espressione non prevista o che si pone al di fuori della logica del controllo o della previsione, diventano sufficienti, oggi, per consentire il linciaggio culturale ed esistenziale di intere nazioni, culture? perché, si chiede e chiede ai suoi lettori Nori, non si dovrebbe più, in virtù della guerra di aggressione portata avanti dalla Russia nei confronti dell’Ucraina, leggere o insegnare Dostoevskij a scuola, addirittura bandire musicisti russi dai teatri europei, non consentire la lettura o spettacoli aventi a tema opere dei russi? Cosa c’entrano Tolstoj o Gogol, con la maledetta guerra di Putin contro Kiev del 2022?
All’inizio del suo nuovo saggio-romanzo lo scrittore ci avverte subito del fatto che chi scrive dei russi, chi ama i russi, chi traduce i russi e si intende della storia russa, sa bene che ogni russo ha in Ucraina un parente, un amico, qualcuno che ritiene “rodnòj”, cioè “legato a sé nelle viscere”, “viscerale”, “fraterno”.
E ci racconta, anche, che quando scoppia la guerra e lui è nel mezzo della scrittura del nuovo libro, chiama in Russia alcuni amici per sapere come stanno vivendo i primi mesi del conflitto e da lì, loro, i russi, quelli che piangono perché hanno in Ucraina un caro, un “rodnòj”, dicono a lui, a noi, di farci coraggio, di “tenere duro”.
Il punto non è avere una vita “felice”. Non è neanche avere una vita in cui “va-tutto-bene”. Il punto è averla, una vita. Non mancarla. Il cuore di verità di questo libro è questo. In Vi avverto che vivo per l’ultima volta (Mondadori, 2023) Paolo Nori, con il suo stile piano e diretto, scanzonato e colloquiale, teatrale e discorsivo, affonda le mani e il cuore, di più, fa dialogare la sua anima e il suo cuore di scrittore, storico, letterato, con la vita di Anna Gorenko, per noi tutti passata alla storia come Anna Achmatova (1889-1966), tra le più grandi poetesse che la Russia abbia mai partorito e donato all’umanità. L’opera che ne viene fuori è sofferta. In un corpo e corpo appassionato fatto di aneddoti biografici, lettere, impressioni riferite da amici artisti con cui la poetessa è vissuta, testimonianze dirette e indirette e più o meno romanzate, la vita e l’opera di Anna Achmatova vengono dipinte come un arazzo in cui i fili della vita restano fedelmente intrecciati alle trame dell’opera.
La poetessa nasce nei pressi di Odessa nel 1889, cambia cognome (prendendolo in prestito da una principessa tartara sua antenata) per non scontentare il padre che non voleva essere disonorato dall’attività letteraria della figlia, sposa un uomo che salverà dal regime di Stalin per sua intercessione diretta. Nori dipinge il ritratto di una donna che aveva scelto di essere un poeta (sempre declinando il sostantivo al maschile) di rara bellezza estetica e morale, la cui vita, sin dalle primissime pagine, appare come una vita “scelta”, “voluta”, messa a fuoco da un destino grande.
Nessuna vita si fa da sé, ma neanche si può andare incontro al destino senza un “sì” che sia l’accettazione della proposta che si riceve alla nascita. Anna Achmatova non solo abbraccia la sua lingua, ne abbraccia molte altre, sfida la tradizione familiare, impara l’italiano per leggere Dante, rifiuta la mano di suo marito tre volte prima di accettarla, viene riconosciuta e acclamata in vita come poeta, conosce e intrattiene rapporti con grandi letterati del suo tempo senza chiedere permesso, avverte tutti che vive “per l’ultima volta”, mantiene la parola data fino alla fine dei suoi giorni. Una lottatrice. Una pioniera della voce femminile in letteratura, senz’altro, nel devastante Novecento. Eppure, afferma nelle lettere la poetessa, la letteratura per lei non aveva genere. Era ridicolo suddividerla in maschile o femminile. Esisteva, per Anna Achmatova, un solo campionato.
La sua poesia arriva fino nei gulag. Probabilmente, ci suggerisce lo scrittore, nei luoghi di estrema sofferenza, quella poesia avrà saputo illuminare il buio pesto della vita di molti dispersi nel dolore. Come accadde a lui, ci suggerisce ancora Nori, ribadendo la sua passione profonda moltissime volte nel corso della narrazione, quando incontrò per la prima volta Raskolnikov e la poesia di Velimir Chlebnikov, quella di Brodskij, quella di Anna Achmatova.
C’è chi in Russia si ferma sotto la casa dei personaggi inventati dai romanzieri e parla di loro come di persone in carne ed ossa. C’è chi conosce a memoria i versi di poeti celebri. La lingua arriva a dire “posso” lì dove la Storia e gli eventi sembrano sancire la fine di ogni possibilità.
E così la vita, in quel grande e oscuro e meraviglioso Paese che oggi sanguina forse di sangue anche proprio, pur negandolo o non sapendolo o dimenticando o forse tacendolo, è stata possibile grazie agli uomini che hanno saputo dirla con le parole e storie e versi che tengono in sé la storia di una umanità intera. Che tutti viviamo per l’ultima volta, scrive Nori, forse non lo ricordiamo abbastanza. La prima e anche l’ultima, senza altre partenze. Per questo, forse, ricordarlo significa amare quell’unica possibilità, cercando nell’esperienza propria e degli altri le tracce per arrivare a guardare sé stessi le cose e il mondo fino in fondo.
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