A settant’anni di distanza dalla Dichiarazione Schuman il dossier Europa. Il cammino dell’unità, la speranza di un nuovo inizio, a cui è dedicato il n. 24 di LineaTempo, offre una riflessione sulla genesi e sull’evoluzione del processo di integrazione europea che, nell’attuale contesto di una trasformazione epocale dovuta al sopraggiungere della pandemia, costringe la stessa Europa a ripensare se stessa.
Nella tragedia in corso nessuno si salva da sé; questo è il grande lascito di un anno che ha sconvolto il pianeta, durante il quale ciascuno ha riscoperto, nel contesto liquido della post-modernità, la necessità dell’altro per la definizione di sé. Questa stessa coscienza, mutatis mutandis, accompagnò gli europei al termine di un’altra tragedia, la seconda guerra mondiale. La storia dell’unità europea che ne è seguita è infatti la storia di un’amicizia tra leader consapevoli del fatto che fosse giunto il momento di “coalizzare gli uomini non gli Stati”, come disse Monnet.
Un tale sforzo creativo sfidava in un sol colpo le pretese di potenza degli Stati, emerse nel contesto moderno europeo, che nell’esperienza dei totalitarismi avevano raggiunto l’apice, e per giunta all’indomani di una guerra fratricida. Ma la politica, come ha scritto Weber, è l’arte dell’impossibile, e su questa strada impervia ma feconda si sono incamminati i padri dell’Europa, a partire dal più grande visionario tra essi, quell’Altiero Spinelli promotore di una federazione europea che sarebbe stata “la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa”.
Il metodo seguito dai primi accordi fu in realtà di tipo funzionalista, pur nella prospettiva di realizzare un’Europa federale, secondo l’obiettivo esplicitato dalla stessa “dichiarazione Schuman”. Come ha osservato Lorenza Violini nell’intervista che ci ha rilasciato, “questo tentativo di democratizzare un’entità statuale formata da stati sovrani è molto nobile e praticamente unico”.
Lo ricordava recentemente la Frankfurter Allgemeine Zeitung, quando ha fatto notare come spesso si accusa l’Unione Europea di deficit democratico, senza rendersi conto che essa è la prima realtà statuale al mondo che ha posto in essere un processo di democrazia transnazionale. All’interno di questo processo ha preso forma il progetto Erasmus, che dal 1987 muove milioni di studenti in tutta Europa. Esso incarna l’archetipo ideale del cittadino europeo, come ci ha descritto Alessandro Corsi nel suo illuminante articolo. Era questa prospettiva che i padri dell’Europa unita avevano immaginato per le nuove generazioni, lontano dagli odi e dalle separazioni, come disse Alcide De Gasperi di ritorno in Italia dopo aver partecipato alla conferenza che aveva stabilito le norme essenziali per il funzionamento della Ceca: “il bambino è nato. Esso è vitale e di costituzione robusta; è l’unità europea. La vedremo crescere e svilupparsi: purtroppo noi anziani non ne vedremo forse la piena maturità, ma i giovani sì. I nostri figli ci benediranno per gli sforzi compiuti”.
Questo grandioso progetto richiedeva tuttavia l’adesione della Germania. La storia aveva dimostrato che un forte stato al centro dell’Europa, isolato, ne minava l’equilibrio e la pace. Non a caso, la nascita della Repubblica federale, avvenuta nel 1949, e la riunificazione tedesca, seguita al crollo del muro di Berlino, – su quest’ultimo spartiacque europeo e occidentale tout court ha riflettuto Mariano Vezzali nel nostro dossier – hanno costituito le due più importanti spinte propulsive del processo di integrazione europea. Come scrive Massimiliano Valente, la volontà da parte francese di controllare la rinascita della Germania si unì alla decisione dell’élite dirigente tedesca di ritrovare una collocazione internazionale dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, realizzando un accordo franco-tedesco che guida l’intero processo di integrazione.
Non sorprende pertanto che la cancelliera tedesca Angela Merkel, per giustificare l’intesa con la Francia, volta a favorire un intervento straordinario, superiore persino al Piano Marshall, da parte dell’Unione Europea, per rispondere alla crisi dovuta alla pandemia, in un discorso al Parlamento tedesco abbia ricordato che “per noi in Germania riconoscersi nell’Europa unita fa parte della nostra ragione di Stato. Non è un argomento per bei discorsi della domenica, è una questione alquanto pratica: siamo una comunità di destino”.
E tuttavia, nei settant’anni trascorsi si è ottenuta una sempre maggiore integrazione economica e giuridica, che spesso ha imboccato vicoli ciechi, soprattutto sul piano costituzionale e culturale, e non è mai giunta a superare quella linea spartiacque che avrebbe reso l’Unione Europea uno stato vero e proprio con una piena integrazione politica. La stessa moneta unica, come ci ha detto autorevolmente Roberto De Santis, doveva servire da stimolo per un’integrazione politica, non ancora realizzata.
A tutt’oggi, il nodo da sciogliere è la difficoltà di conciliare il processo di integrazione con il fatto che agli stati è lasciata un’ultima riserva di sovranità, ovvero la “competenza delle competenze” con cui essi conservano un potere sostanziale di azione e di direzione del processo unitario. Ancora agli inizi degli anni sessanta, rievocando il contesto in cui si ipotizzava un’articolazione positiva tra gli stati, le tradizioni culturali e la futura federazione europea, in una conversazione Adenauer affermava: “Posso dirle ancora che sin dal primo giorno, e quindi parliamo di dieci anni fa, c’era la chiara tendenza di giungere all’Unione politica, sia da parte di Robert Schuman, mia, di De Gasperi e di Jean Monnet”.
La pandemia allora, facendo venire allo scoperto le criticità del processo di costruzione europea, come ha sottolineato Giulio Sapelli in 2020. Pandemia e resurrezione di cui presentiamo un estratto, rappresenta la possibilità di un nuovo inizio, che passa anzitutto dal recupero della centralità della persona in cui è racchiusa l’autentica vocazione della coscienza europea.