Il nome di Michael von Albrecht è, giustamente, celebre per tutti gli studiosi di letteratura e filologia latina. Citiamo solo due argomenti dei moltissimi che furono oggetto dei suoi studi: i suoi imprescindibili contributi ovidiani, ma anche la riscoperta di Silio Italico, che dobbiamo a lui.

Il presente volume, Ad scriptores Latinos. Epistulae et colloquia. Cari classici. Lettere e dialoghi, traduzione poetica e prefazione di A. Setaioli (Graphe.it, 2022) continua una serie dedicata a un ulteriore, particolare aspetto dell’opera di von Albrecht: la sua produzione in lingua latina, da riconnettersi con quella che è stata ed è la sua opera di promozione della didattica delle lingue classiche e dell’uso attivo del latino, oltre che con l’intima convinzione secondo la quale il latino potrebbe ancora costituire un tramite comune fra i popoli del mondo, come si afferma anche nel presente volume, al termine del Dialogo con Cicerone.



Da molti anni dunque compaiono, in varie sedi, opere in lingua latina di von Albrecht, nelle riviste Latinitas, Vita Latina, Vox Latina, Giornale Italiano di Filologia, Prometheus. Una serie di dieci “satire” (Sermones) è da poco apparsa nella collana Propylaeum dell’Università di Heidelberg, dove von Albrecht ha insegnato dal 1964 al 1998. 



Molta della produzione in lingua latina di von Albrecht è raccolta in due volumi: Scripta Latina (Frankfurt 1989) e Carmina Latina (Frankfurt 2019): il primo di questi volumi, fra l’altro, comprende una composizione, ristampata in versione illustrata e bilingue, intitolata De simia Heidelbergensi (attualmente disponibile anche in edizione russa e spagnola). Chi abbia visitato Heidelberg ricorda certo, all’ingresso della Alte Brücke sul fiume Neckar, la statua in bronzo – scultura moderna, in sostituzione di una più antica, andata distrutta – di una scimmia che regge uno specchio rivolto verso il passante: un invito a specchiarsi per riflettere su quale delle due “scimmie” abbia più cervello. 



Nel suo scritto, von Albrecht immagina dunque che il Lucio di Apuleio decida di tornare sulla terra nel mondo contemporaneo. Recatosi dapprima a Roma, ha la brutta sorpresa di scoprire che nessuno comprende più il suo latino. Il solo che lo capisce gli dice che, però, forse in Germania esiste ancora qualcuno che lo può intendere: per cui, trasformato non più in un asino, come nelle Metamorfosi, ma in una scimmia, Lucio arriva ad Heidelberg. Qui incontra due studenti di filologia classica, di nome Felix e Candida. Ma nemmeno in Germania il latino è più di moda, e se anche la scimmia lo conosce perfettamente, non è certo grazie all’aiuto di quest’ultima che i due ragazzi potranno fare carriera, per cui Candida deve restare nella sua ditta di computer: ma alla fine sarà proprio con l’aiuto della scimmietta – e, beninteso, della lingua latina – che Felix libererà la ragazza e tutti coloro che, come lei, sono diventati schiavi del mezzo informatico. Nel suo testamento, poi, la scimmia dispone che le si dedichi una statua. In altre parole, il garbato e ironico apologo ci fa capire che, quando l’era digitale era ancora ai suoi albori, von Albrecht ne aveva preconizzato i pericoli, mettendoli in satira.

Nel presente libro, invece, von Albrecht si rivolge (in esametri, tradotti da Aldo Setaioli in endecasillabi sciolti) a quattordici autori fra i più celebri della letteratura latina: in alcuni casi indirizza loro la lettera, in altri dialoga con loro nella loro dimensione ultraterrena. In entrambi i casi von Albrecht entra in contatto con gli autori con i quali ha parlato – e che, soprattutto, gli hanno parlato – per tutta la vita: fra i classici e la voce dell’autore si crea quindi una sorta di “corrispondenza d’amorosi sensi”, che giunge quasi a identificare la voce degli autori latini con quella di von Albrecht stesso.

Il criterio di scelta dei destinatari di Epistulae e Colloquia è stato il ruolo di ogni autore latino per capire noi stessi nel mondo di oggi: grazie all’opera di Cicerone il latino è diventato sermo patrius per tutti gli intellettuali del mondo occidentale; quanto ad Agostino, la sua posizione chiave, tra la fine dell’antichità e l’alba del Medioevo lo rende il secondo pilastro della raccolta; fra queste due posizioni chiave si dispongono gli altri interlocutori dell’autore, in serie cronologica, e che manifestano tutte le diverse funzioni della comunicazione linguistica. 

Se per Cicerone la parola è strumento di convincimento e di lotta politica, nel foro e in tribunale, con Seneca la retorica si interiorizza e diventa mezzo di autoeducazione; con Agostino, poi, nelle Confessioni, dal dialogo interno con Dio, nascerà il genere dell’autobiografia spirituale, mentre nel De doctrina christiana la retorica, applicata alla Parola di Dio, si fa ars legendi et intellegendi, ovvero ermeneutica.

Come collocare quest’opera nell’ambito della vastissima produzione scientifica di von Albrecht? L’autore stesso afferma di avere sentito l’esigenza, dopo molti anni di analisi, di osare una specie di sintesi. Da un lato, questo volume è anche da intendersi come una sorta di dotto ringraziamento agli autori latini che hanno accompagnato l’autore come amici capaci di consigliarlo, senza dogmi, ma in piena libertà. Ma il libro va anche inteso come un omaggio alla lingua latina, la cui bellezza e pregnanza non cessa di affascinare l’autore. E proprio perché essa non è lingua di una sola nazione, è proprietà di tutti ed è capace di superare barriere e pregiudizi.

Qui, nell’ambito della finzione di un dialogo poetico con gli antichi, tocca a noi di informare l’autore antico sui suoi successori più moderni, quasi che gli stessimo presentando nipoti e pronipoti: e così gli antichi si rivelano non solo precettori, ma anche padri dell’Europa. 

Insieme, questo libro vuole essere un invito e un’esortazione, al più grande numero di persone possibile, a dialogare con gli autori classici che non invecchiano mai. Al di là, infatti, di innegabili e ineludibili differenze fra i classici e noi, e senza idealizzare il passato, gli antichi padri ci trasmettono idee universali, che non hanno mai perso la loro validità.

Chi legge l’elegante e armoniosa traduzione di Aldo Setaioli, mai forzata, sempre lieve e naturale, di questi componimenti latini di von Albrecht (il quale, oltre che grande filologo classico è anche un grande storico di letterature comparate), si rende conto che gli antichi sono legati a noi – e viceversa – come in una catena che si srotola attraverso i secoli, facendo via via apparire nuovi anelli, i quali, però, sono strettamente connessi con quelli che li hanno preceduti: non siamo, e non saremo mai i primi, ma nemmeno mai soli.

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