Parigi e Cartagenas de Indias. La sfavillante grazia della Ville Lumière e l’esotico magnetismo della Colombia più primigenia. La monumentalità e la dispersività di vicoli colorati a festa. Esistono forse opposti più lontani? Probabilmente no. Eppure, c’è qualcosa, un simbolo comune, una reminiscenza letteraria, che quasi magicamente le unisce. Come se per un istante, fuori da qualsiasi tempo e da qualsiasi spazio, finissero per trovarsi appaiate lungo il corso del medesimo fiume. Si tratta di un battello. Uno di quelli sferruzzanti, un po’ macchinosi, ma non per questo sottratti alla loro eleganza. I suoi corridoi, all’inizio del tragitto affollati dall’anonimato della calca, si tramutano spesso in labirinti da cui è possibile uscire soltanto con qualcuno al proprio fianco. Con una storia sottobraccio, o stretta tra le mani. Una storia, spesso e volentieri, d’amore.
È quantomeno curioso notare, infatti, che proprio il battello riveste un ruolo cruciale in due dei più magnifici romanzi a tema amoroso di sempre. Sia in L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert (1869) che in L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez (1985), il mezzo di trasporto fluviale compare, in maniera speculare, negli snodi narrativi più importanti, imprimendo all’intreccio una svolta di segno assolutamente contrario. In uno rappresenta l’inizio, l’attesa spasmodica di una nuova vita, l’esaltazione e il fermento della giovinezza. Nell’altro, la fine. L’ideale compimento di una parabola lunga e affascinante. Il sopraggiungere di una vecchiaia carica di fatiche, ma anche, ancora, fervidamente, di sogni. Perché il battello non è, in questo peculiare squarcio letterario, appena un luogo. È uno specchio che capovolge le immagini e i significati. Dove l’ardore dell’adolescenza presagisce il dramma e l’inconcludenza. Mentre l’apparente fiacchezza della maturità rifiorisce in una nuova, appassionata vitalità.
Quando Flaubert ci introduce alle peripezie dello sbarbato e scalmanato Frédéric Moreau, fresco del compimento dei suoi studi liceali, il battello su cui viaggia sta facendo volta verso la capitale francese. Non sa ancora, quel ragazzotto che sogna il glamour e il lusso parigino, che di lì a poco l’incontro con l’editore Jacques Arnoux sconvolgerà i suoi piani. Ad accompagnare l’anziano intellettuale è, infatti, la moglie Marie, di cui Frédéric si invaghisce perdutamente. È il primo refolo di una spirale impetuosa, la prima illusoria scintilla di un amore già condannato dalle circostanze, che finisce per travolgere il giovane. Quell’amore repentino, puramente disinteressato ad ogni differenza anagrafica e sociale, assume la forma di un malinconico e disperato rimpianto. Tra le difficoltà di un percorso universitario che non lo entusiasma e gli sconvolgimenti di una Parigi divisa tra rivoluzionari e monarchici, tra i tentativi di scalata economica e le ristrettezze che più volte lo costringono ad abbandonare la città e l’affetto dell’amico Deslauriers, Frédéric rimane prigioniero degli eventi. Prigioniero della sua smania di essere qualcuno, fino al punto da detestarsi, considerarsi estraneo a sé stesso. Persino l’amore, che sembrava avergli promesso la salvezza dall’inedia dello spirito, finisce per diventare suprema mercificazione. Mentre Marie gli appare sempre più irraggiungibile, mai davvero disposta ad abbandonare il marito nonostante i sentimenti che prova per il suo giovane spasimante, relazioni infruttuose si alternano dinanzi a lui: quella con Rosanette, prostituta sul lastrico che perde il loro figlio appena nato; e quella clandestina con la ricca signora Dambreuse, da cui spera, invano, di ricevere una corposa eredità. Ogni frammento della sua vita sembra sciogliersi. I desideri di ricchezza, che tanto lo hanno tormentato per tutta la sua esistenza, svaniscono, si sgretolano. A Parigi, per lui, non c’è più nulla. Andrà per il mondo, forse salendo su chissà quanti altri battelli, come quello fatale che lo aveva condannato. Salvo poi tornare, un’ultima volta, in città. Per dare l’addio definitivo a quella signora Arnoux che mai fu in grado di amare fino in fondo. Per constatare che il suo stare al mondo, che i suoi ricordi, erano indelebilmente macchiati dall’ombra del fallimento.
Sul battello cullato dalle acque del fiume Magdalena, invece, il personaggio di García Márquez, Florentino Ariza, mette piede al limitare della sua esistenza. Lo fa in compagnia dell’amata Fermina Daza, dopo averla attesa per cinquantatré anni, sette mesi e ventitré giorni. Nonostante tutto sembrasse cospirare contro quell’amore. Florentino è sempre stato lì, sulla soglia di quel moderno trasportatore di anime, in attesa. È stato lì allo sbocciare delle prime, tremolanti tenerezze. Quando il padre di lei, il ricco possidente Lorenzo Daza, l’aveva sottratta alla sua vista e alla sua compagnia perché un ragazzo abbandonato alla nascita, cresciuto da un umile merciaia, impiegato poi come telegrafista, semplicemente non era abbastanza. È stato lì persino quando la sua amata ha finito per ripudiarlo, per ritrarsi da quel sentimento così puro eppure così soffocato dalla realtà delle cose. Quando di lei non gli era rimasto che un mucchio di lettere e una treccia di capelli. Ed è stato lì anche quando Fermina aveva sposato il medico Juvenal Urbino. Quando donne di ogni provenienza e di ogni ceto lo avvicinavano strappandogli un effimero istante di oblio da quel dolore. Fino a quando la vita non ha deciso di restituirgli quella felicità a lungo strozzata. Quando Fermina, ormai vedova, aveva lasciato che la sua fiera resistenza cedesse il passo, immergendosi nuovamente nelle toccanti missive di Florentino. Quando finalmente, prendendosi per mano, avevano scelto di solcare insieme quel fiume: non più per dirsi addio. Non più per cercare nell’ignoto una traccia di sé che non fosse il ricordo dell’altro. Ma per riaffermare la loro reciproca appartenenza.
È sul tema dell’autenticità, sul filo sottile tra fatalismo e ostinazione, sulla direzione reale e metaforica di quel battello che emerge la distanza tra Frédéric e Florentino. Il primo è il passeggero di un mezzo che si sta avvicinando alla città: così tanto da essere assorbito, inghiottito dal reticolo delle sue contraddizioni. Il personaggio di Flaubert è ossessionato dai possedimenti materiali: è convinto che da essi dipenda la definizione del suo essere, della sua identità. Ma è inseguendoli che, invece, l’identità si dissolve. Che le opportunità si frammentano. La creatura di García Márquez, invece, intraprende uno spostamento di verso contrario, allontanandosi dal nucleo urbano che per tanti anni aveva custodito il suo dolore speranzoso. Florentino non lascia che l’indigenza, che l’incerto profilarsi di condizioni economiche migliori, che le altre fugaci apparizioni passionali si frappongano nella ricerca di ciò che più gli sta a cuore. Uno, nel mondo che tanto ha sognato di afferrare, finisce per perdersi. L’altro, che dal mondo è stato più volte emarginato, finisce per plasmarne uno tutto suo, in apparenza impossibile.
Scrive García Márquez: “Gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce, ma la vita li costringe ancora molte altre volte a partorirsi da sé”. Tutti vorremmo essere in grado di farlo. Tutti vorremmo essere Florentino. Ma il più delle volte, intenti a ricercare il superfluo, ritardiamo nell’apprendimento di questa massima. Finendo per indossare, in certi casi in maniera irreversibile, giù dal battello che ci trasporta in lungo e in largo per i nostri anni, la maschera di Frédéric.
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