Lungo le rive vicine le fiamme dai fumaioli della fonderia che si levano alte e accecanti nella notte
E proiettano ombre guizzanti, contrastate da vivide luci rosse e gialle, sui tetti delle case, e giù sugli anfratti delle strade.
Queste e tante altre immagini sono state per me ciò che sono ora per voi.

Quando ci si imbatte nei versi magnetici di Walt Whitman (1819-1892) – o quando li si va coscientemente a ripescare da chissà quale anfratto della memoria – non si può fare a meno di pensare a quanto fragile, talvolta impercettibile, sia l’equilibrio del paradosso su cui si regge la grande poesia. Ciò che essa tenta continuamente di fare, infatti, è condensare l’universalità nell’individualità di un sentimento e di un’ispirazione radicalmente personali. Uno sforzo apparentemente controintuitivo che il poeta di West Hills, più di ogni altro prima di lui, sentì di dover ineluttabilmente intestarsi. Quasi come a voler sostenere il peso di un fardello altrimenti destinato a depositarsi sul fondo della storia. E sebbene siano spesso altre le suggestioni provenienti da Foglie d’erba (1856) a fare capolino tra le antologie critiche, come testimonianza lirica di questa sorta di panismo etico, è in Crossing the Brooklyn Ferry che Whitman squaderna tutto il suo interesse e il suo peculiare amore per l’uomo.



Aggrappati con lo sguardo all’East River di Manhattan e agli inconfondibili traghetti che timidamente ne solcano la tela blu fino a giungere fumanti a Brooklyn – in quel tratto che nel 1883 avrebbe visto sorgere l’iconico e omonimo ponte – i versi del poeta statunitense appaiono immediatamente velati di una certa reminiscenza dantesca. L’alternarsi dei passeggeri, del loro strepitare così come del loro assorto silenzio, più che ad un’abitudinaria e frenetica consuetudine cittadina somigliano ad una passerella eterna, ad un transito di anime catturate dalla loro stessa pensosità.



L’occhio di Whitman è l’occhio del destino, l’inscalfibile e compassionevole senso del tempo che si lascia rincorrere senza mai degnare della preda i suoi affannati cacciatori. È l’ora che non tornerà, e allo stesso tempo quella che al di là della propria volontà permetterà di essere perennemente ri-abitata.

Alta marea del fiume, che scorre sotto di me! Ti guardo dritto in faccia,
Nubi dell’ovest, sole alto ancora per mezz’ora, anche voi vi vedo faccia a faccia.
Folle di uomini e donne con addosso i soliti abiti, quanto mi sembrate strani!
Sui traghetti le centinaia e centinaia di persone che attraversano il fiume mi sembrano più strane di quanto tu possa immaginare,
E tu che attraverserai da una riva all’altra fra molti anni, sei per me e per le mie meditazioni più di quanto tu possa immaginare.
L’impalpabile sostentamento che traggo da ogni cosa ad ogni ora del giorno.



Perché il tempo, in Whitman, quantomeno nella concezione quantitativa che noi occidentali siamo soliti affibbiargli, non è mai esistito. C’è solo un’eterna, infinita sovrapposizione di piani e di interiorità. E il suo canto, sinuoso come le scie di quei traghetti dal moto perpetuo, si snoda con naturalezza tra di essi. Nella comune esperienza della vita, che affratella gli uomini al di fuori di ogni convenzione. Proprio lì, all’incrocio tra l’autenticità di ciò che resta di uno scorcio di natura e la ruggente modernità del ferro che cresce su sé stessa, tra l’immutabilità dell’acqua che torna a richiudersi dopo essere stata attraversata e la brezza di futuro che soffia impetuosa, il poeta statunitense cristallizza mirabilmente l’analogia di fondo dell’umano sentire. Che vive il suo travaglio e la sua gioia in costante cammino, tra una sponda e l’altra, nell’attesa di approdare e nell’inerzia del navigare. E lo fa insieme a tutti gli altri, ignari compagni a cui anche Leopardi si era rivolto ne La ginestra menzionando la “social catena che strinse i mortali contra l’empia natura”.

A tutti i loro il poeta finisce per dare voce. Persino a sé stesso, alla sua eterna controfigura, a tutte le eterne alternanze liriche che un giorno, come lui, hanno sperato e spereranno. Hanno compatito e compatiranno. Hanno rivelato e riveleranno che in sé, nel solo guardarsi negli occhi, adagiata sul seggiolino di un’imbarcazione che sferruzza lungo un sottile velo di spuma, l’umanità ha già il germe della pace che va cercando.

L’inno sempre attuale alle cose che furono, che sono, e che sicuramente saranno:

La corrente che rapida irrompe e nuota con me, via lontano,
Gli altri che mi seguiranno, i legami fra me e loro,
La certezza degli altri – la vita, l’amore, la vista, l’udito degli altri.
Altri attraverso i cancelli dei traghetti passeranno da sponda a sponda, Altri osserveranno l’alta marea che monta,
Altri guarderanno il traffico navale di Manhattan a nord e a ovest, e le colline di Brooklyn a sud e a est,
Altri guarderanno le isole, grandi e piccole,
Fra cinquant’anni altri le osserveranno attraversando il fiume, il sole alto sull’orizzonte ancora per mezz’ora,
Fra cent’anni o fra tante centinaia di anni, altri le osserveranno,
Si rallegreranno del tramonto, del montare dell’alta marea e del ritrarsi dell’acqua alla bassa marea.
Non serve né tempo né luogo – la distanza non serve,
Io sono con voi, voi uomini e donne di una generazione o di tutte le generazioni a venire.

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