Nel dialogo The Decay of Lying, completato nel dicembre 1888 e pubblicato il mese successivo sulla rivista Nineteenth Century, Vivian e Cyril conversano giocosamente di arte e letteratura. Vivian è il portavoce delle urgenze del suo autore, un po’ come il Socrate platonico; il nucleo del suo pensiero è riassunto in un aforisma tipicamente wildiano: “la vita imita l’arte, molto più di quanto l’arte imiti la vita”. L’idea è al cuore della poetica di Oscar Wilde, e trova drammatica dimostrazione nella sua vita, spesso misteriosamente prefigurata nelle sue opere;  non solo, con grande evidenza, nel Ritratto di Dorian Gray, ma anche nelle sue favole, tra cui Il Principe Felice è forse uno dei casi più significativi.



Il racconto nasce in quegli stessi anni, durante una delle prime visite di Wilde ai circoli studenteschi di Cambridge, ed è probabilmente pensata per i suoi amatissimi figli, Cyril e Vivian.

I temi più cari a Wilde affiorano chiaramente nel Principe Felice; la feroce condanna della società vittoriana, rattrappita in un meschino utilitarismo e un razionalismo a buon mercato, e l’ideale romantico-classicista di un’arte che possa superare e redimere la realtà grazie al potere della bellezza e dell’immaginazione. Al buon senso di una madre spazientita, Wilde oppone nel Principe Felice il pianto di un figlio che si strugge per luna; alla severità del professore di matematica, bambini che sognano angeli; allo sprezzo dei suoi compagni, il “ridicolo” corteggiamento del Rondinotto ad una Canna di fiume; ad un’idea pragmatica dell’arte, predicata dai Consiglieri Comunali e teorizzata dal Professore dell’Università, la bellezza gratuita del principe, che si spoglia di se stessa e diventa visibile agli occhi di Dio.



Il Principe Felice non è certamente un’allegoria del “pensiero” di Wilde, entrambi concetti estranei alla sua sensibilità e alla sua poetica, piena di contraddizioni e aporie. È semmai, come tutte le sue opere più grandi, (involontaria) parabola e profezia di un’anima tormentata, di una vita come “work of art” plasmata dall’esperienza estetica, in cui parole, immagini ed eventi sono prefigurati dall’arte e continuamente transitano tra finzione e realtà.

Come il Principe nel suo palazzo incantato e il Giovane Re dell’omonimo racconto, Wilde è Re del “mondo irreale dell’arte”, poi ricordato, con disincanto e nostalgia, nel buio della prigione di Reading; pochi mesi prima della crisi, una chiromante gli legge nelle mani la sua “regalità”, annunciandogli un imminente esilio; la stessa regalità che Wilde promette al suo amato Bosie di recuperare dopo la sua liberazione, nell’ultima, tragica illusione di una vita insieme, prima del loro breve e amaro incontro napoletano.



Sans-souci è il palazzo dove Wilde vive gli anni dorati del suo successo mondano e letterario, guidando nelle danze una generazione di ragazzini egoisti, devoti ai piaceri dell’attimo. Come chiosa Verlaine, che lo incontra a Parigi, il Wilde di quegli anni “è un vero pagano. Possiede l’insouciance (spensieratezza) che è solo metà della felicità, perché non conosce il pentimento”.

L’incompletezza dell’insouciance è riconosciuta con amarezza dallo stesso Principe Felice, che sa bene che la felicità non coincide con il piacere, e che il giardino di Sans-souci ha bisogno di mura altissime che lo proteggano dagli attacchi minacciosi del reale.

L’immagine del giardino circondato da mura è un altro topos nella vita e nell’opera di Wilde. Nel Gigante Egoista è un muro che divide il giardino gelato del Gigante dalle risa dei bambini; nell’attacco iroso del De Profundis Wilde rimprovera a Bosie di non vedere “oltre quello stretto giardino murato dei tuoi volgari desideri, appassito dalla lussuria”. Wilde è pero refrattario a qualunque interpretazione organica o lineare; sempre nel De Profundis è lo stesso Wilde che descrive senza pentimento la sua passeggiata nel giardino del piacere.

“Mi ricordo quando a Oxford dicevo a uno dei miei amici (…) che volevo mangiare i frutti di tutti gli alberi nel giardino del mondo (…) Il mio unico errore è stato di essermi limitato esclusivamente agli alberi di quello che sembrava il lato al sole del giardino, evitando l’altra parte per la sua ombra e la sua cupezza. (…) Non mi pento neanche per un attimo di aver vissuto per il piacere. (…) Ma continuare la stessa vita sarebbe stato sbagliato, perché mi limitava. Ho dovuto fare il passo. Anche l’altra metà del giardino aveva i suoi segreti in serbo per me. Certo tutto questo è adombrato e prefigurato nella mia arte. Alcune cose nel Principe Felice, altre nel Giovane re (…)”

Come esplicitamente riconosciuto da Wilde, è dunque la conoscenza del giardino del dolore la grande profezia del Principe Felice. I lacci di piombo che vincolano la statua alla colonna da cui il Principe vede la Miseria del mondo, prefigurano quelli che incateneranno Wilde alla “tremenda realtà” della gogna e della cella, in cui il Dolore sarà l’unico “cibo” delle sue interminabili giornate.

La fuga dal dolore è al centro della traiettoria umana di Wilde ed è all’origine della sua repulsione per i versi profetici di Goethe spesso citati da sua madre (“Chi mai mangiò del dolore i pani (…) non vi conosce, Potenze Celesti!”), e del suo persistente sospetto per Cristo, figura di grande fascino ma colpevole di aver posto troppa enfasi sul dolore.

La fuga di Wilde termina quando verrà trascinato, come il suo Principe, giù dal suo piedistallo, perdendo soldi, affetti, reputazione, e soprattutto il suo fascino, come gli urla Bosie con una frase violenta che ferirà profondamente Wilde (“Quando non sei sul tuo piedistallo non sei interessante!”).

Nello stesso tempo, Il Principe Felice racchiude un germoglio prezioso di positività. La compassione porta “caldo” nel gelo dell’inverno, dice il Principe al Rondinotto. È il Mistero del Dolore che permette al Principe di abbracciare il suo popolo e di diventare veramente Principe del suo regno. La condivisione del dolore genera l’amore tra il Principe e il Rondinotto, anch’esso (forse) prefigurativo, e conduce al momento culminante della storia, in cui amore e dolore raggiungono il loro vertice, e, nel bacio all’uccellino morente, il cuore del principe si spezza, pronto per l’abbraccio di Dio.

L’immagine più iconica del Principe Felice è dunque quella del cuore spezzato accolto dagli angeli di Dio. Anche questa immagine è profetica: Wilde parlerà spesso del suo cuore spezzato dagli anni di prigione, così come del legame misterioso tra dolore e amore, e della scoperta che attraverso un dolore umilmente accettato l’uomo può diventare veramente se stesso e incontrare la sua “anima”. Il dolore può essere respinto con ribellione o tollerato stoicamente, ma è solo attraverso un cuore spezzato che un’ipotesi di salvezza può far capolino nell’orizzonte di un’esperienza umana, come Wilde canta nella sua straziante Ballad of the Reading Gaol:

Ah, beati coloro il cui cuore può spezzarsi
E conquistare la pace del perdono!
Come altrimenti potrebbe l’uomo raddrizzare le sue vie
E l’anima mondare dal peccato?
Come, s
e non per il varco d’un cuore spezzato,
Cristo Signore in lui potrebbe entrare?

È un Cristo solamente umano quello di Wilde, a cui lui non si inginocchierà mai, se non in punto di morte, anche grazie all’influenza di san John Henry Newman, incontrato tanti anni prima a Oxford. È un Cristo che non insegna nulla ma “fa diventare”; che purifica la “bruttezza dei peccati” e rivela, a chi viene in contatto con la sua personalità, “la bellezza del dolore”. Questa è la vera scoperta del De Profundis che Wilde, pur nelle contraddizioni degli ultimi anni, non dimenticherà; anch’essa è prefigurata nelle pagine, intense e leggere, del Principe Felice.