Per provare a capire i fatti da un altro punto di vista, che non sia quello unidirezionale di chi decide cosa e come raccontare i fatti, è possibile accedere alla letteratura contemporanea e scoprire fattori trascurati e spunti esistenziali che sollecitano la nostra tempra a riconnettersi con i dati fondamentali; con questo – nella sostanza – ritorna ad essere essenziale la letteratura.
Ecco che sul tema Ucraina è utile e stimolante leggere questi due libri che ci dicono di questo Paese, ben prima del conflitto da cui ormai siamo tutti troppo poco afflitti, perché è sotto i miei occhi come mi abituo ad ogni stortura, anche se le immagini le documentano giornalmente con chirurgica precisione.
I libri sono Il convitto di Serhij Zadan (Voland, 2020) e Una passeggiata nella zona di Markijan Kamyš (Keller, 2019) e sono due perle: potenti nei contenuti, capaci di portarci sul terreno, in quelle steppe sconfinate, tutte uguali per migliaia di chilometri (chi le ha viste sa che somigliano al mare), indistinte e senza fine dove il dramma (politico e umano) si è iniziato a consumare ben prima del 24 febbraio 2022.
Il convitto è la vicenda carica di tensione di un viaggio dentro la guerra di Crimea del 2014: non ci sono prese di parte, non ci sono giudizi morali, è la descrizione nuda di un’eroica settimana di vita di un giovane insegnante che attraversa più volte la linea del fronte per andare a recuperare il nipote ospite, appunto, nel Convitto. Il protagonista non è un eroe, al contrario: è un surrogato della cultura post-sovietica che punta all’apatica sopravvivenza: non gli interessa parteggiare, non prende parte alla disputa, se ne sta in disparte non solo dalla storia, ma di fatto dalla vita. Poi la guerra interrompe la sequenza indistinta di fatti incolori e controvoglia, contro coraggio, Paša parte affrontando la sventura. È un perdente nato e per scelta in un barlume quasi impercettibile concede fiducia ad una miccia microscopica, che quasi non si vede, ma che lo catapulta dentro l’azione: corre tra le macerie, nei dedali di quartieri deserti, nel buio degli spari fino a raggiungere e recuperare il nipote. E poi tornano indietro, in una via che è diventata mille volte più pericolosa di quella dell’andata, senza fermarsi mai. Non è un problema di decidere da che parte stare, ma – nell’eco di Pasternak – di decidere di vivere appoggiandosi ai fatti. È molto più che un salvataggio: zio e nipote scoprono di avere bisogno uno dell’altro ed entrando nella storia e assecondandone in qualche maniera un compito, si riscattano.
Una passeggiata nella zona è la descrizione dell’abisso esistenziale dei giovani dell’epoca post-sovietica, capaci di fare i conti con il monumentale abisso dell’area di Chernobyl: un’enorme superficie desertificata a forza dopo la tragedia. Una zona ampissima dove prima c’era una città e decine di villaggi ma che, dopo l’esplosione e la messa in sicurezza del reattore, è stata evacuata, cinta di filo spinato e resa inaccessibile. Ma i divieti e i rischi di essere contaminati non impediscono di entrare a chi, in qualche modo, non ha niente da perdere, non ha di meglio da fare o vuole perdersi dentro qualcosa che non sia il prodotto di un mondo di cui non si sente figlio. Il protagonista racconta le decine e decine di volte in cui entra nella zona, addentrandosi nella città fantasma che forse assomiglia alla sua stessa anima. La zona ha una strana capacità di attrazione, non solo per il protagonista, ma per molti altri e nel fondo, pur sapendone il pericolo, questo non guasta il bisogno di tornarci: di allontanarsi dal mondo in cui non ci si ritrova entrando in una realtà parallela, densa di sospiri, vuoti, ansie, stellate senza fine, silenzi spietati. E concludere le serate ubriacandosi.
La densità della vita viene a galla per chi accetta di rispondere alle cose che succedono pur dentro le contraddizioni e si incammina entrando nella zona di Chernobyl o mettendosi in marcia verso il Convitto: c’è una forza carsica che sprigiona energie inimmaginabili nelle persone, le stesse che oggi, nel crepitare delle sirene di Kharkiv che gridano il rischio del prossimo bombardamento, non corrono più dentro ai rifugi, ma continuano a fare quello che stanno facendo.
La vita è molto più forte e vivere così è, forse, il solo modo per sconfiggere la guerra.
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