Si parla (poco) di tregua a Gaza, un po’ di più di una possibile pace in Libano. Ma la vera notizia è quella di una guerra che continua con operazioni militari violentissime contro le città libanesi e il nord della Striscia. La guerra in Medio Oriente, sostiene Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, in realtà è diventata una questione di politica interna americana, e il pericolo è che i discorsi sui negoziati si trascinino solo fino al 5 novembre, giorno delle presidenziali americane, per poi perdersi nel nulla. I presupposti per un accordo non ci sono, lo si vede anche nei dettagli, che poi tanto dettagli non sono: uno dei mediatori statunitensi tra Israele e Libano, Amos Hochstein, in passato ha prestato il servizio militare nell’esercito israeliano. Non un grande esempio di personaggio super partes.
Gli americani sembrano decisi a ottenere un accordo per il cessate il fuoco in Libano. E anche le autorità di Beirut fanno trapelare qualche speranza. C’è davvero la possibilità di mettere a tacere le armi?
Gli USA ci stanno provando con una persona estremamente schierata come Amos Hochstein, americano che però ha prestato servizio nell’esercito israeliano. Non si può definirlo un mediatore sopra le parti. Di certo i contatti ci sono: si parla con Nabih Berri, un uomo per tutte le stagioni, presidente dell’Assemblea nazionale libanese, il più importante esponente di Amal, partito sciita, che ha ricevuto un mandato anche da Hezbollah per sondare il terreno. Come successore a Nasrallah, intanto è stato nominato Naim Qassem, figura di continuità, il che fa pensare che in Libano molti vorrebbero almeno una sospensione della guerra. Il problema è per arrivare a cosa.
Quale potrebbe essere il vero obiettivo della trattativa?
Gli USA pensano di cambiare il paradigma libanese, ma la questione fondamentale è: l’accordo si fa prima o dopo il 5 novembre? Una domanda che non vale solo per i democratici. Trump, che manda una lettera ai libanesi americani, fa comprendere quanto il Medio Oriente sia una questione di politica interna statunitense. Hanno più da guadagnare i democratici, perché nell’ultimo anno ci sono state bombe e non accordi: su questo Harris sta perdendo consensi. Mentre Trump dichiara che riporterà la pace. Il punto, tuttavia, è cosa vuole il governo israeliano da un accordo.
A Tel Aviv basterebbe l’applicazione della risoluzione ONU 1701 con la demilitarizzazione del confine tra i due Paesi?
Israele non si limita a questo: pensa di marginalizzare la parte sciita, ma è la maggioranza della popolazione, non tutta rappresentata da Hezbollah. Si parla di conferire più potere all’esercito libanese, ma questo vuol dire rafforzare i sunniti e avere sullo sfondo i cristiani: da questo si capisce che Israele vorrebbe far scoppiare una guerra civile.
Perché vorrebbe una guerra civile?
Vuole far scontrare tra loro i libanesi per togliere potere a Hezbollah.
Ma Israele sta vincendo o perdendo in Libano?
Dal punto di vista dell’aviazione è evidente che c’è un monopolio israeliano e che il Libano dovrebbe fare i conti con questo anche in futuro. Ma una pace si può basare sul dominio di uno sull’altro? Se l’idea di pace è questa sembra più una resa. Israele, comunque, non sta vincendo via terra: il numero di soldati morti e feriti è alto in questa area e i razzi di Hezbollah non si sono fermati.
La trattativa di pace, insomma, per quanto solo abbozzata, non ha grandi prospettive?
Tra poco è il 5 novembre: è possibile un accordo in quattro giorni? È come l’intesa su Gaza, fino a poche ore fa si parlava di una tregua di 48 ore, ora è calato il silenzio anche su questo. La verità è che la notizia principale di questi giorni dovrebbe essere quella del bombardamento di Baalbek, così come i trasferimenti forzati dal nord della Striscia. Le mediazioni, comunque, non si fanno in poco tempo. Se ne parlerà fino al giorno delle elezioni, poi non so come si procederà.
Intanto, giusto per confermare che la guerra è diventata una questione di politica interna americana, Trump ha detto a Netanyahu che vuole che il conflitto finisca prima del suo eventuale insediamento come nuovo presidente. E contemporaneamente, secondo la CNN, l’Iran attaccherà prima delle presidenziali. La situazione potrebbe precipitare nuovamente?
Non sappiamo cosa farà l’Iran, non è detto che attacchi: il presidente Pezeshkian ha detto che il Paese risponderà con forza e con prudenza, che non è alleata della fretta. Siamo alle ipotesi fondate sul nulla. Si gioca sull’attesa, perché questa è la parola che descrive il tempo della guerra: Trump e Harris parlano sempre del futuro, si ragiona sempre di quello che succederà, mai su quello che è successo. Harris dice che gli ostaggi torneranno a casa, Trump che porterà la pace. Non ci sono prese di posizione su quello che sta succedendo a Gaza o in Libano.
Trump per Netanyahu potrebbe essere un problema?
Nella storia USA sono i democratici che fanno la guerra e i repubblicani che fanno la pace. Trump, però, ha compreso che questa storia può funzionare fino a un certo punto per la sua presidenza. La presenza dei musulmani americani a un suo discorso in Michigan conferma ulteriormente che Gaza è diventata una questione di politica interna, perché è una storia che riguarda il ruolo degli USA nel mondo, non tanto come questione di politica estera ma in relazione ai diritti, alla legalità: su cosa si investe, sugli armamenti o sulle questioni sociali? La domanda è stata rivolta a Harris e la sua risposta è stata devastante dal punto di vista dell’impatto sul pubblico, nei confronti di comunità importanti per il voto democratico: “Soffriamo tutti perché deve finire la guerra a Gaza, perché troppi sono morti, ma l’elettorato americano si occupa anche di quanto costano i prodotti nei supermercati”.
(Paolo Rossetti)
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