Brucia Beirut, e questa volta l’esplosione che ha distrutto la capitale del Libano non c’entra. Brucia di rabbia, e forse anche di vendetta. Al punto che il delicato equilibrio politico tra diverse confessioni religiose, difficoltosamente elevato a sistema, vacilla pericolosamente nel sabato delle proteste e degli scontri. Migliaia di persone in piazza chiedono ciò che hanno domandato pochi giorni fa ad Emmanuel Macron, il presidente francese che per primo tra i leader internazionali ha visitato il Paese dei cedri sconvolto: un cambio di regime. L’immagine plastica di questo sconvolgimento è quella che ha visto i manifestanti fare irruzione oggi nel palazzo del ministero degli Esteri, poi rimuovere e bruciare le foto del presidente della Repubblica, il cristiano maronita Michel Aoun. “Il palazzo sarà la sede della rivoluzione”, dicono davanti alle telecamere i dimostranti, convinti di poter rovesciare il sistema, di inaugurare un futuro certamente incerto, quanto meno diverso.
LIBANO, IL MANICHINO DI NASRALLAH SUL PATIBOLO
Ma l’emblema del rischio che il Libano si frantumi in mille pezzi, diventando terra di conquista da parte di potenze straniere, è forse il trattamento riservato al manichino di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, il “partito di Dio” che di fatto sostituisce uno Stato inesistente nel Paese. Il leader del gruppo sciita filo-iraniano (sono stati i persiani ad addestrarne le milizie anni addietro, ndr) ieri ha negato in un discorso televisivo ogni addebito: “Io nego categoricamente, totalmente. Noi non c’entriamo nulla con questa esplosione, nel porto negli hangar non avevamo un missile, o armi, neppure una pallottola. Tutti accusano sempre, Hezbollah, Hezbollah, Hezbollah. Per prime le televisioni arabe, e mille altri. Chi è contro Hezbollah impari che cosa è la verità“. Ma le sue parole non devono aver convinto un’ampia fetta della popolazione se è vero che il suo manichino è finito sul finto patibolo installato in piazza dei Martiri. Una mossa che non è piaciuta ai seguaci di Hezbollah, scesi in strada per scontrarsi con gli autori dell’iniziativa e fermati soltanto dall’esercito. Tutto questo mentre il premier libanese, il sunnita Hassan Diab, ha annunciato in un discorso tv la volontà di chiedere al Parlamento elezioni anticipate. “Resterò al governo per due mesi in attesa dell’accordo politico“, ha detto. Dando ottimisticamente per scontato che possano essere i partiti di oggi a dettare l’agenda. E soprattutto che la folla di Beirut sia disposta ad aspettare i tempi della ricostruzione politica, dopo la distruzione della propria vita.