Il professor Chiosso, che insegna nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino, è un docente ben conosciuto ai lettori della nostra Rivista. Gli abbiamo rivolto alcune domande, per fare il punto insieme con lui sulla storia della scuola media in Italia, specie negli  ultimi cinquant’anni, e per provare a disegnare qualche lineamento del futuro di questo segmento, particolarmente importante e insostituibile, del nostro sistema scolastico e formativo.



Professore, come è sorta e a quali esigenze ha voluto rispondere l’attuale scuola secondaria di primo grado (già scuola media)?

L’istituzione della scuola media (questa l’intitolazione originaria) risale al 1962 e giunse al termine di un lungo dibattito protrattosi per circa un ventennio. Essa maturò infine all’interno delle politiche riformatrici dell’allora appena insediato governo di centro-sinistra. Le principali tappe che anticipano il provvedimento del 1962 sono tutte legate alla necessità di soddisfare l’obbligo scolastico che la riforma Gentile del 1923 aveva già fissato a 14 anni. In ordine di tempo a tal fine erano state previste, dopo il quinquennio elementare, le classi post elementari, poi agli inizi degli anni Trenta furono costituite le scuole di avviamento al lavoro e infine nel 1940 fu creata per volere del ministro Bottai la scuola media con il latino mediante lo scorporo, e la relativa unificazione, dei primi tre anni dai corsi secondari dell’istruzione classica (di qui la strana intitolazione per l’attuale ginnasio, la cui numerazione parte dalla IV classe) e tecnica. In sostanza, per il compimento dell’obbligo (peraltro ampiamente disatteso almeno fino alla metà degli anni Cinquanta) i ragazzi tra gli 11 e i 14 anni prima dell’istituzione, nel 1962, della scuola media potevano scegliere fra tre tipologie di scuole: le classi post elementari, le scuole di avviamento al lavoro e la scuola media con il latino. È impossibile qui richiamare l’amplissimo dibattito che, in specie nel dopoguerra, si avviò sul questo ciclo scolastico: se dovesse restare articolato oppure se dovesse essere unificato in un solo tipo di scuola. Alla fine prevalse questa ultima soluzione per varie ragioni: la più forte fu sicuramente quella legata alla convinzione di dover assicurare almeno fino ai 14 anni una scuola unica con scopi prevalentemente orientativi. Vorrei ancora ricordare che la legge del 1962, pur configurando la media come unica scuola per il preadolescente, previde alcune possibilità di opzioni al suo interno (ad esempio le applicazioni tecniche in alternativa all’insegnamento dei primi elementi del latino), che poi furono eliminate da una successiva legge del 1977.  



Cosa si è guadagnato e cosa si è perso con i cosiddetti “ritocchi” del 1977, da cui derivarono i Programmi del 1979? 

La revisione legislativa del 1977 rappresenta il – direi naturale – compimento di quanto era restato in sospeso quindici anni prima. La scuola media assume la sua fisionomia di scuola davvero unica e non solo unitaria. Per cogliere questo passaggio bisogna ricordare la stagione culturale in cui esso maturò, segnata da una forte spinta egualitaria, dalle polemiche sulla incapacità della scuola media di essere davvero una scuola “per tutti” (basta ricordare Lettera a una professoressa dei ragazzi di don Milani), dal prevalere di una concezione più “sociale” che culturale dell’istituzione scolastica. È dentro questo clima che maturano i nuovi criteri di valutazione, le iniziative in materia di integrazione degli alunni portatori di handicap, una pedagogia fortemente (troppo) centrata sulla programmazione didattica, la sottolineatura (talvolta davvero eccessiva) della continuità tra scuola elementare e scuola media, la convinzione che l’estensione del tempo scolastico rappresentasse una variabile rilevante rispetto al successo scolastico individuale. Il tempo pieno diventa quasi sinonimo di “buona scuola”, come se altre attività educative esterne alla scuola non avessero quella medesima capacità formativa riconosciuta alla scuola. Insomma, siamo nel pieno dell’affermazione di una vera e propria ideologia scuolacentrica. Naturalmente questa “moltiplicazione” di scuola è sostenuta e incoraggiata dai sindacati, per ragioni evidenti di incremento dei posti di insegnamento. Tra aspetti più positivi e altri più discutibili la scuola – in specie quella media, poi a poco a poco anche le superiori – diventa comunque in questi anni davvero una “scuola di massa”, pagando purtroppo il prezzo (forse inevitabile) del suo indebolimento culturale. Questo fenomeno è oggi di fronte agli occhi di tutti, ma così non era trent’anni orsono, anche se alcuni acuti osservatori della realtà scolastica statunitense (ad esempio Ivan Illich, a lungo impegnato nella scolarizzazione dei portoricani di New York) già avevano notato i limiti di una scuola che, per semplicità e con qualche approssimazione, potremmo definire di tipo “assistenzialista”.



 

Professor Chiosso, perché la legge del 2003 ha modificato la precedente intitolazione, introducendo quella attuale di “scuola secondaria di primo grado”?

Ho direttamente partecipato tra il 2001 e il 2003 alle discussioni che hanno portato a questa scelta. Per capirne le ragioni bisogna risalire al precedente progetto di riforma (la legge n. 30 del 2000, ministro Berlinguer) che – come forse molti ricordano – prevedeva l’unificazione in un unico tipo di scuola settennale sia delle classi elementari sia delle classi di scuola media. Una soluzione che finiva in sostanza per elementarizzare il ciclo primario, azzerando la fisionomia propria del triennio del preadolescente e, soprattutto, quella particolare esigenza di orientamento verso le successive scelte che costituisce (o dovrebbe costituire) la caratteristica propria della scuola media. Nel ribadire la necessità di una scuola intermedia tra primarietà elementare e secondarietà articolata in vari indirizzi di studio è sembrato al legislatore opportuno ribadire che la natura della scuola media appartiene al ciclo secondario pur se in stretta continuità con l’istruzione elementare (tanto è vero che il modello organizzativo verso cui ci si sta orientando, anche per ragioni di risparmio economico, è quello degli Istituti comprensivi). Ma è stato bene, a mio giudizio, ribadire in modo anche istituzionalmente significativo che la scuola del preadolescente non è la continuazione delle elementari, ma costituisce il primo segmento dell’istruzione secondaria.

 

Qual è la natura propria di quella che lei definisce la scuola del preadolescente? Quali rapporti si dovrebbero stabilire con la scuola primaria? 

Uso volentieri l’espressione scuola del preadolescente perché penso alla scuola come a una istituzione che trova il suo senso sociale e culturale se è finalizzata a soddisfare le esigenze degli allievi e le aspettative delle famiglie. Se non pensiamo alla scuola in questi termini “personalizzati” la scuola rischia di rappresentare soltanto un luogo, più o meno piacevole, in cui si trascorrono alcune ore del giorno, senza che questa esperienza risulti effettivamente significativa in termini di crescita personale. Desidero precisare che quando parlo di “esigenze degli allievi” e di “aspettative delle famiglie” intendo riferirmi a ciò che è ragionevole e opportuno sul piano educativo. Non si possono (e non si debbono) rincorrere, ad esempio, tutte le richieste che emergono da genitori spesso ansiosi, esageratamente centrati sul successo del figlio, timorosi che qualsiasi semplice rimprovero rappresenti un trauma pericoloso. Se pensiamo, dunque, alla scuola del preadolescente dobbiamo allora chiederci ciò che è necessario e opportuno prevedere per una fascia di età connotata da alcune caratteristiche ancora proprie della fanciullezza e altre invece già segnate dall’anticipo di quella profonda transizione che è la successiva stagione adolescenziale. Per esempio, è una scuola nella quale è opportuno prevedere un impegno culturale (dico culturale nel senso proprio di questa espressione, e cioè come modalità e sostanza dell’accostamento al sapere) meno spontaneistico e più organico rispetto alle classi precedenti; è una scuola ove bisogna tenere conto che i ritmi di apprendimento sono ancora abbastanza diversi se confrontati con quelli adolescenziali (di qui l’esigenza didattica di articolare le attività in forme differenziate e laboratoriali); è una scuola ove bisogna far emergere le propensioni e le attitudini personali; è una scuola che riserva ampio spazio a far maturare le capacità di autoapprendimento (e cioè quello che con altra espressione si definisce il metodo di studio). È una scuola – passando ad un altro piano – che dev’essere ricca di emozioni positive, affidata a docenti che veicolano modelli adulti significativi, che sa essere giustamente esigente, ma anche comprensiva, perché l’età preadolescenziale si presenta controversa e già ricca, in molti casi, di quelle contraddizioni che poi saranno più accentuate nell’età successiva. È una scuola, infine, che si raccorda con quella elementare – secondo un principio di continuità  che va sicuramente valorizzato – ma che ha pure necessità di essere “altra” rispetto alla scuola elementare, perché anche il principio di discontinuità rappresenta un criterio pedagogico da non sottovalutare.

 

Guardiamo infine al “dopo scuola media” e al suo futuro come specifico segmento del sistema scolastico. Quali collegamenti si devono stabilire, a suo giudizio, fra la scuola media e la scuola secondaria di secondo grado? E cosa pensa dell’eventualità di un biennio delle superiori ripiegato sul modello della scuola secondaria di primo grado?

Ciascuna scuola ha senso nella misura in cui risponde alle esigenze di una specifica stagione evolutiva e promuove in modo adeguato e coerente le potenzialità degli allievi. Come non sarebbe di nessuna utilità, ad esempio, una scuola elementare prolungata fino ai 14 anni, così sarebbe inopportuno pensare a una precoce ipersecondarizzazione della scuola media. La scuola secondaria di primo grado ha finalità sue proprie (ho cercato, in modo certamente molto sommario, di indicarle nella risposta precedente) e tra queste non rientrano forme di anticipo rispetto a ciò che è invece proprio della scuola superiore. Se la scuola media fa il suo compito bene, se introduce gli alunni ai diversi saperi disciplinari (sempre comunque in un’ottica di connessione e non di frammentazione fra le diverse materie), se fornisce loro un metodo di studio, il passaggio alle classi successive sarà agevole senza particolari problemi. Anche in questo caso il principio pedagogico di continuità va però integrato con quello di discontinuità. La ragione è molto semplice: senza forme di passaggi discontinui non si cresce e non si percorrono le diverse stagioni della vita. Purtroppo oggi molte famiglie (lo dico incidentalmente) bamboleggiano troppo a lungo con i figli nella convinzione che questo li protegga dalle frustrazioni (inevitabili) della vita. Dichiaro perciò la mia perplessità rispetto a qualche ipotesi di allungamento del modello della scuola media (di cui velatamente si sta discutendo in varie sedi) anche per i primi due anni degli istituti secondari. Non solo questa ipotesi ridurrebbe, di fatto, il quinquennio superiore a un semplice triennio, ma finirebbe per allungare il modello della preadolescenza ben oltre i suoi confini evolutivi naturali. È vero che per certi aspetti bisogna tenere conto – come si dice in modo semplice – che “i ragazzi crescono più adagio” di un tempo, ma è necessario anche tenere conto del fatto che i ragazzi amano crescere e perciò misurarsi con sfide sempre più impegnative.

 

(a cura di Carlo M. Fedeli)

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