Onorevoli governanti,

In un contesto come quello degli ultimi mesi, anzi, degli ultimi anni, è difficile per un insegnante far corrispondere il senso e il significato della propria professionalità con l’immagine che spesso viene veicolata da chi il mondo della scuola lo guarda da lontano e ha il compito di occuparsene e legiferarci su anche se non ha svolto un solo giorno da “questo lato” della cattedra. E non è l’ennesima polemica del frustrato di turno, che si vede piovere dall’alto la richiesta di svolgere 6 ore settimanali in più non retribuite, ma la riflessione di chi ha scelto una professione avendo grande consapevolezza del fatto che nel nostro Paese scegliere di fare l’insegnante è quasi un segno di squilibrio mentale. Così, quando vedo delinearsi dietro le dichiarazioni e i commenti di alcuni l’idea di ridefinire lo statuto o l’immagine del docente per avvicinarla in qualche modo a quella di altri lavoratori, non riesco a non pensare che la mattina, quando comincia il mio orario di lavoro, io non ho davanti a me delle carte o un pc, ma persone. E il “peso” di questa consapevolezza mi è ben chiaro tutti i giorni, soprattutto nei giorni in cui ti manca l’energia, o c’è meno motivazione.



A chi pensa, poi, che basti entrare in classe e ripetere la lezioncina a memoria o stare comodamente seduti sulla propria sedia ascoltando alunni interrogati per aver assolto al proprio compito non opporrei il conteggio delle ore impiegate per riunioni collegiali, colloqui con genitori, correzioni di compiti o preparazione delle lezioni. No. Risponderei con i visi dei ragazzi che quotidianamente ti chiedono che senso abbia studiare la grammatica o scrivere un tema, memorizzare le declinazioni latine o risolvere un’equazione.



Insegno alle scuole medie, e negli anni di esperienza a scuola mi sono resa conto che una caratteristica di questo livello di istruzione è che sei “costretto” ad andare al cuore della disciplina che insegni, perché i ragazzi hanno bisogno di capire, ed è necessario essere leali con loro. Non ci si può nascondere dietro le parole, come magari a volte viene fatto nei livelli di istruzione superiori. Andare al cuore delle discipline vuol dire anche rispondere alla domanda, più o meno implicita, dei ragazzi: che senso ha quello che studio? cosa c’entra con me quello che tu, docente, mi stai proponendo? È questo un invito ad una riflessione continua sulla propria disciplina, sulla valenza formativa della stessa per i ragazzi che hai davanti, che sono sempre uguali ma profondamente diversi nel loro stare al mondo, nel loro rapportarsi agli altri e anche a se stessi. Ecco perché è necessaria, a mio parere, una preparazione specifica dei docenti che insegnano alla scuola media, che devono conoscere talmente a fondo la propria materia da essere in grado di coglierne gli essenziali e le connessioni con le altre discipline, ma non nel senso della più semplicista interdisciplinarietà: si deve essere in grado di far vedere ai ragazzi come i vari ambiti disciplinari, le varie materie, non sono altro che modi diversi ma complementari di guardare la realtà per tentare di comprenderla in maniera sempre più approfondita.



La difficoltà del mestiere dell’insegnante, oggi, non è solo quella di sopravvivere in una giungla di leggi e riforme che fanno e disfano e che rendono impossibile uno sguardo sul proprio futuro professionale, e non è nemmeno quella di arrivare a fine mese, quanto quella di riscoprire ogni giorno e con ogni ragazzo il senso di quello che si è chiamati a fare. La scuola e l’insegnamento hanno origine da un atto educativo in cui il coinvolgimento dei due “attori”, docente e alunno, è fondamentale, anzi, condizione stessa della sua esistenza. In altre parole, ciò vuol dire che devi starci con tutto te stesso in classe e di fronte ai ragazzi, che non puoi permetterti di abbassare la guardia o di avere giornate “no”. Il cuore di questo mestiere è tutto qui: nella capacità e nella volontà di sostenere i ragazzi nell’interrogare la realtà mentre entrano in contatto con essa, nel rapporto che l’adulto riesce a stabilire con le domande dei più giovani. È chiaro, in questa dinamica, che tutto parte da una mossa personale di un adulto che si sente coinvolto con la realtà, che vive appieno il presente e si pone di fronte ai ragazzi con tutto se stesso, con tutta la complessità della propria persona.

Insegno lettere, e quando la mattina leggo Omero ad una classe di ragazzi attenti e curiosi, mi sembra straordinario che un “miracolo” si possa ripetere ancora: un autore in grado di parlare a distanza di secoli a degli adolescenti e in grado di spingere i ragazzi ad interrogarsi su sé stessi. E riscopro dunque, in quel contesto, che la funzione “maieutica” dei professori è importantissima: l’insegnamento è infatti un lavoro in cui entra in posizione centrale l’affectus, cioè l’amore, il desiderio, la benevolenza, la simpatia, l’inclinazione. Quando le materie non sono un semplice campo per esercitazioni nozionistiche, appare evidente il loro valore educativo. Insegnando italiano e latino, cerco di far capire ai ragazzi quanto le parole siano importanti, e quanto anche la grammatica sia importante, nonostante la fatica che loro spesso riscontrano nello studio. La lingua regge il mondo, nel suo potere di comunicare, informare, plasmare e talora plagiare gli  animi: questo provo a spiegare ai miei studenti, o meglio, a fare loro intuire, giorno per giorno, magari con fatica, ma anche con fiducia.

Non temo di essere giudicata presuntuosa, ma sono fortemente consapevole del fatto che vivere e fare scuola ogni giorno con la passione per lo studio e per il bene dei ragazzi è cosa ben diversa dal “recitare” la lezione o proporre questionari. Mi sono sempre più convinta nel tempo che i ragazzi a quest’età hanno bisogno di professori che siano per loro testimoni del piacere dello stare a scuola, dell’amore per lo studio e per la bellezza, e che siano in grado di spiegare il senso delle interrogazioni e il valore delle valutazioni, che propongano attività alternative, che stiano con loro nelle pause e non abbiano la fretta di raggiungere il collega per il caffè. I ragazzi hanno bisogno di chi risponda alle loro domande di significato e abbia tempo, voglia, risorse e formazione per farlo, perché sappiano di essere voluti bene e non di essere soltanto oggetti di valutazione; perché sappiano di essere guardati nella loro unicità: perché non si ha davanti il ragazzo medio, ma un ragazzo, con la sua intelligenza, la sua storia, le sue tempistiche di sviluppo, le sue caratteristiche. 

È questo, quello della personalizzazione dell’insegnamento, un aspetto essenziale della scuola media che vivo come realtà pressoché costitutiva della mia professione. La consapevolezza della diversità degli alunni che si hanno davanti porta a sperimentare metodi e proposte varie che possano “prendere” ciascuno, coinvolgerlo, e soprattutto, che siano adeguati per i diversi stili di apprendimento e per le capacità di ognuno. E questo non perché è il preside ad “importi” tale approccio o perché così è scritto nel POF della scuola: è lo sguardo che ciascun ragazzo ogni giorno ti pone addosso, è il loro bisogno di sentirsi parte viva di un contesto che riconoscono come il loro, è il desiderio forte di ricevere una proposta, una sfida che siano in grado di cogliere e affrontare a obbligarti, quasi, ad agire in questa direzione. Sono sempre un forte scossone gli sguardi persi e spauriti dei ragazzi che si rendono conto di non cogliere qualcosa, qualcosa che magari i loro compagni colgono benissimo, e allora si rinnova in me, docente, la percezione del senso di responsabilità verso di loro, e sono portata di continuo a riscoprire che è necessario insegnare loro non solo contenuti e metodi, ma anche la bellezza dello stare insieme in modo costruttivo, del godere di ciò che ci viene dato, dell’essere aperti al mondo e dello scoprire chi siamo e qual è la nostra vocazione. In quest’ottica, dunque, diventa sempre più indispensabile che la scuola preveda attività e momenti di didattica individualizzata, per permettere ad ogni alunno di trovare le proprie strategie di apprendimento e diventare padrone di un metodo che non è solo utilizzabile nello studio ma è approccio alla multiforme realtà con la quale si ha a che fare nella vita.

Mi permetto di concludere con un’osservazione di certo banale, ma che ha nella sua elementarità la forza della verità: esistono già nel nostro paese delle scuole “riformate”, scuole dove gli insegnanti lavorano spinti dalle ragioni di cui si è detto, ed è proprio a tali realtà che le istituzioni dovrebbero guardare per capire da quale punto far partire una seria riflessione sulla scuola e sulla professione docente.

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