Insegna da 37 anni. È stato uno dei primi alunni della scuola media unica, orientativa, obbligatoria, gratuita, secondaria di primo grado. Ne ha viste di tutti i colori. Intende permanere nella sua scuola. Perché? Come?
Gli insegnanti della mia generazione sono passati attraverso un tempo scuola normale e un tempo scuola prolungato, lo studio sussidiario e le LAC (libere attività complementari – è stato il mio primo lavoro nel mondo della scuola, allora frequentavo ancora l’università), il recupero e lo sviluppo, le attività integrative, la sperimentazione ex articolo 3, le novità della Moratti, di Fioroni, della Gelmini, la programmazione, la post-programmazione, la didattica per concetti, la didattica per obiettivi del Bloom e di chissà quanti altri, le unità di apprendimento, le applicazioni tecniche e l’educazione tecnologica, la didattica per competenze, il valore aggiunto delle prove Invalsi, i criteri Ocse, la LIM, gli strumenti compensativi o dispensativi, un’ infinità di corsi di aggiornamento e progetti, il cooperative learning, gli Osa (Open space tecnology), le Life Skills, magari un piccolo impegno sindacale nell’RSU, fino alla nuova bozza delle indicazioni per il primo ciclo di istruzione. E ho dimenticato certamente dei passaggi.
Credo di aver imparato sempre qualcosa: ogni novità pedagogica o didattica aggiustava il tiro del mio modo di insegnare, poneva l’accento ora sulla motivazione degli alunni, ora sul metodo, ora sulla valutazione, ora sul benessere a scuola – degli alunni e degli insegnanti -, oppure sui contenuti, sul linguaggio, sui nuovi strumenti per la nuova generazione digitale, sul disagio, sull’handicap, sui diversamente abili, sul perché vale la pena insegnare…
Credo anche di essere stato molto fortunato: dove insegno (in una scuola statale della Brianza), noi colleghi abbiamo sempre preso sul serio, quindi in modo anche critico, le proposte, le suggestioni, le indicazioni, i nuovi programmi; pur sapendo che spesso dietro certe novità o impostazioni c’erano interessi o risvolti politici, scartarle in toto, a priori, ci sembrava maledettamente ideologico, e anche un po’ presuntuoso da parte nostra. Discussioni e scontri ce ne sono stati tra di noi, e questo ci è servito a prendere ancora più sul serio il nostro lavoro, c’è stata spesso anche la tentazione di dire, dopo l’ennesima ultima novità in campo pedagogico, “niente di nuovo sotto il sole” oppure “Oh! Ma cosa vogliono questi? Con lo stipendio che abbiamo…!”, ma poi nasceva il sospetto che forse era una scusa, perché non eravamo più disposti a imparare ancora, a metterci in discussione, dopo tanti anni; insomma a nessuno piaceva l’idea di fare la cariatide della scuola, vecchia, anzi antiquata, e per niente flessibile. Quanto allo stipendio, mi sembra ridicolo attendere che migliori per migliorare la propria professionalità.
Credo insomma che in tutti questi anni non abbiamo mai lasciato perdere nulla di quello che nella scuola “avanzava”: abbiamo sempre trovato spunti per motivarci, per affinare i nostri strumenti, per essere competitivi nell’educazione e vincere sul grande fratello, su facebook o you tube, per crescere, cambiare e adattarsi alle nuove esigenze.
C’è una cosa però che è rimasta sempre identica a se stessa nel mio modo di stare a scuola.
“Se vuoi costruire una nave, non radunare gli uomini per raccogliere legna e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare”, ha scritto Antoine de Saint-Exupéry.
Ecco, questo desiderio non è mai cambiato. Non è mai venuto meno in me questo richiamo a insegnare la “nostalgia” che c’è in ogni cosa, un richiamo che vale per ogni aspetto della vita, dallo studio al lavoro, dai rapporti tra le persone ai passatempo.
Prima ancora di essere una fatica, una necessità cui piegarsi per soddisfare i bisogni naturali, lo studio o il lavoro sono una originale vocazione. Sono un richiamo appassionato. Lo studio, il lavoro, la ricerca, esprimono il desiderio degli uomini di entrare in rapporto affascinante con la realtà, di conoscerla, di percorrerla fin dove essi possono arrivare e trasformarla, per scoprire ciò che ognuno di noi è. Mettendo in gioco la propria libertà.
Quando in una classe prima affronto l’unità sulla fiaba, mi capita spesso di fare questa esperienza: afferro l’antologia, con passi lenti cammino nella classe tra i banchi, faccio attenzione – come sono capace – a curare la voce, rallento o velocizzo la lettura a seconda della storia, faccio delle opportune pause, cambio il tono di voce se c’è una filastrocca, allora accade che gli alunni, che prima seguivano la storia anche loro sull’antologia, poco alla volta alzano la testa, smettono di seguire sul libro e si mettono in ascolto, guardando me, qualcuno a bocca aperta. Ecco, li ho catturati, li ho portati con me, dentro il mondo della fiaba, ho suscitato la nostalgia per quel mondo. Ma questo lo posso fare perché credo, anch’io come Calvino, che le fiabe sono vere, sono un grande caleidoscopio che spiega a me come a loro come va il mondo e come è possibile affrontare la vita. In seguito spiego ai ragazzi che se vogliamo inoltrarci ancora di più in questo mondo, dobbiamo tirare fuori i remi per il nostro vascello, a questo punto vanno bene anche le funzioni di Propp, le carte di Rodari o l’analisi strutturale, che sono appunto remi, cioè solo strumenti, per addentrarci sempre di più nel mare aperto della fiaba.
La stessa cosa accade con i racconti di avventura, che nonostante la concorrenza sleale degli effetti speciali sul grande schermo, sanno ancora affascinare i ragazzi, tanto che spesso li senti dire “ma perché queste cose non accadono anche a me?” Ma anche in questo caso è possibile entrare con il nostro vascello nella nostalgia dell’avventura, solo se anch’io credo, come Chesterton, “che la vita quotidiana è la più romantica delle avventure, che solo un cuore avventuriero lo può scoprire” e che nella finzione letteraria, nei romanzi o nei racconti di avventura si può trovare una fitta rete di coincidenze e paragoni con la nostra vita: attraverso il lavoro di analisi testuale i ragazzi scoprono che nella finzione letteraria ciò che dà inizio all’avventura è sempre un evento, un incontro che sconvolge la normalità o banalità della vita e la trasforma, riempiendola di attese e speranze. E questo accade anche nell’avventura della vita. La strada per raggiungere la meta è disseminata di incontri e imprevisti che non è sempre possibile evitare. Prima o poi bisogna affrontare anche pericoli e rischi. Conviene affrontarli da soli? A chi si può affidare per un aiuto? Contro chi dobbiamo combattere? E leggere diventa crescere insieme, perché adulti e ragazzi comunicano ciò che sono, ciò che sanno, ciò che imparano nel viaggio dalla comune passione per il lavoro, per lo studio, per le circostanze della vita.
La mia collega di inglese, cui parlo sempre volentieri di questa nostalgia, di questa passione o di questo gusto per ciò che si fa, che è necessario che scaturisca negli alunni perché prima è scattato nell’adulto, ribatte sempre che io sono fortunato, perché insegno lettere, e per un insegnante di lettere è più facile, per via dei nostri contenuti. Le ho lanciato la sfida: insegnare la nostalgia del mare nella terra arida della grammatica. Mi piacerebbe portare gli alunni a desiderare di entrare nel territorio della grammatica così come Flannery O‘Connor desiderava entrava nel territorio del diavolo dei suoi racconti.
Ho seguito un corso d’aggiornamento di Daniela Notarbartolo: lì ho deciso, partirò per questo viaggio dai “connettivi”. Ci sto lavorando.