Prendendo spunto da uno sciopero di insegnanti, nel dicembre 1955 il settimanale diocesano “il nostro tempo”, di Torino, aprì una discussione sullo stato di salute della scuola italiana di allora.

Il primo intervento fu un’acuta riflessione di Augusto Del Noce sulle trasformazioni in corso nel modo d’intendere e di attuare l’insegnamento – specie nel segmento dell’ordinamento scolastico posto fra l’istruzione elementare e l’università. Essa conserva ancor oggi tutta la sua pertinenza, ben oltre il problema e le urgenze di quel particolare momento. La prima parte richiama l’attenzione sulla riduzione “impiegatizia” della concezione del docente e del suo ruolo. Le parti in corsivo, nel testo, sono dell’Autore. I titoli dei paragrafi sono invece redazionali. (a cura di CARLO M. FEDELI- Docente Scienze della Formazione-Università degli Studi-Torino)



Il professore, oggi – sostanzialmente un impiegato

Il professore medio è oggi, socialmente, un borghese declassato. Non soltanto nel troppo evidente riguardo economico; anche in quello della considerazione pubblica della sua funzione.

Ricordiamo perciò alcuni interventi a cui i recenti scioperi hanno dato occasione. Un’interrogazione al Presidente del Consiglio sull’opportunità di richiedere agli insegnanti una maggiore prestazione di lavoro «dato che essa appare notevolmente al di sotto della media generale delle altre categorie di lavoratori», da utilizzarsi in doposcuola obbligatori, perché le famiglie possano essere sollevate da tante preoccupazioni ecc., è stata sottoscritta da quattordici senatori.



Molti hanno protestato contro l’illogica pretesa di stabilire un ragguaglio tra gli stipendi dei professori e quelli degli impiegati di industria (dei semplici impiegati, si noti, non certo dei dirigenti). Mossi a ciò, evidentemente, da ragioni disinteressate, perché che cosa si vuol togliere agli impiegati dell’industria, proponendo aumenti per i professori? Dunque, in difesa del sacrosanto principio che chi è soggetto a minor orario di lavoro non ha diritto allo stesso guadagno del lavoratore normale; nella buona coscienza di combattere per l’ideale della «società giusta». Interventi, si dirà, di incompetenti; fino a un certo punto, perché questo parere fu pure ragionato, in un numero di maggio di Epoca, da un noto economista.



Ancora, si tende in generale a sostituire la designazione di «insegnanti medi» a quella di «professori». Con perfetta coerenza e per una giusta esigenza di ripulire il linguaggio dei termini equivoci se si ammette la riduzione dell’insegnante medio all’impiegato. Perché, per gli universitari il termine professore ha il senso dell’elevazione del titolo dottorale; invece per i medi, sembra, quello di una sua diminuzione nell’esercizio di un lavoro che, per il suo carattere «soltanto impiegatizio» nel senso letterale, potrebbe essere svolto da semplici diplomati, se la distinzione tra laurea e diploma ha un senso.

Vediamo ora l’idea complessiva a cui questi ragionamenti portano: l’insegnante medio è un impiegato, in qualche modo, a mezzo servizio, per la minor durata dell’orario:

–          che perciò non può lamentarsi dell’emolumento minore;

–          che deve quindi accettare, se pretende miglioramenti, le funzioni che una volta erano dette di «precettorato» e che sono richiamate all’attualità dai nuovi tempi, in cui molto spesso entrambi i genitori sono impegnati in un lavoro fuori casa per tutta la giornata e non dispongono di personale che custodisca e sorvegli i figli. Il progresso democratico e tecnico sembra muoversi per i professori alla rovescia: li obbliga a risalire la china per cui lentamente il loro tipo si era differenziato da quello del precettore. Scuola media, dunque, zona depressa.

 

Gli scioperi hanno avuto almeno questo merito: di portare in chiaro questa decadenza dell’idea del professore nella considerazione pubblica, la sua assimilazione così pacificamente accolta all’impiegato. È questo un fatto indubbiamente nuovo. Già ai tempi del Regno i professori non stavano economicamente troppo bene. Tuttavia nessuno, ancora vent’anni fa, almeno tra le persone responsabili, avrebbe pensato di poterne parlare nei termini che si è detto. Ciò porge l’occasione ad alcune considerazioni.

 

Un cambiamento profondo nella concezione dell’insegnamento

È nota a tutti l’idea tradizionale dell’insegnamento. È quella che si ispira, ancora oggi, al modello di Socrate.

L’insegnante è colui che porta l’allievo a rientrare in se stesso. Colui che fornisce il necessario aiuto maieutico perché l’adolescente  possa scoprire la propria vocazione e decidere l’orientamento della propria vita.

Se la sua funzione è questa, è ben chiaro che ha bisogno, dopo la mattinata di scuola, dei pomeriggi liberi per «prepararsi». Si è detto giustamente che «si insegna, in primo luogo, non quello che si sa, ma quel che si è»; in ragione della personalità culturale e moralmente formata che si possiede, e che si raggiunge traverso un assiduo studio privato che dura tutta la vita. Su questo «esempio di Socrate» (del «santo Socrate», secondo alcuni umanisti) si era formata ai tempi dell’Umanesimo ed era continuata in sostanza fino a oggi, la scuola italiana. Per questo si era visto il suo tipo ideale nel ginnasio-liceo, come istituto di finalità prettamente culturale e formativa. Per questa funzione formativa all’insegnante medio era stato attribuito, nei paesi latini a differenza dalla Germania e dalle nazioni anglosassoni, il titolo di professore.

Come mai si sente ora il bisogno di richiamare all’attenzione queste cose così vecchie, così semplici, così note? Come mai si prova anzi imbarazzo nel ripeterle? Perché insensibilmente si è venuta sostituendo, nell’opinione comune, a quest’idea un’altra. Non si dica, una volta tanto, «per colpa del fascismo». Porta invece il segno dell’ultimo decennio e si è soprattutto formata, anche se ha lontane e confuse origini ideologiche, sulla traccia di un americanismo volgare; di una arbitraria estensione della mentalità tecnica e praticistica.

 

Per questa «nuova idea» bisogna distinguere nel campo della cultura tra produttori e distributori. Appartengono alla prima categoria, tra coloro che lavorano nella scuola, gli universitari; alla seconda, gli insegnanti medi ed elementari. In questo senso la distinzione tra l’insegnante e l’impiegato non ha più veramente nessuna ragione di essere. L’insegnante è l’impiegato addetto a quel particolare servizio pubblico che è la distribuzione di una cultura che egli non ha affatto contribuito a costituire, e rispetto ai cui risultati deve soltanto qualche volta «aggiornarsi», magari soltanto con i rotocalchi e con la radio che gli portano l’eco di una cultura più nuova. Suo compito sarà soltanto quello di rendere all’allievo più facile e interessante l’apprendimento di un libro di testo preparato o almeno riveduto da qualcuno che appartiene alla categoria dei produttori di cultura; e controllare le reazioni degli allievi, se seguono o no, se hanno studiato o no, se si trovano impediti da qualche «trauma psichico» ecc.

 

È evidente che per questo compito non occorrono davvero qualità superiori. L’insegnante eserciterà certe tecniche fondate sulla psicologia anziché sulle scienze del mondo fisico. Dato che la psicologia è una scienza positiva come le altre, il suo «lavorar sulle teste» non avrà alcun carattere privilegiato rispetto al «lavorare sulle cose». E poiché il programma è fissato, il suo compito non sarà di iniziativa; sarà perciò quello di un operaio specializzato.

Come avverrà il suo reclutamento? In rapporto a una differenziazione nella gioventù studiosa tra i capaci di fare qualcosa di nuovo e gli altri, che per paura dell’iniziativa e della vita, resteranno sino alla vecchiaia tra i banchi della scuola. La categoria degli insegnanti formerà quindi il grosso di quella dei borghesi non riusciti, cioè dei «decaduti», con tutti i loro complessi, necessariamente asociali. Con un’ironia feroce i politici assegnano poi alla nuova scuola il compito di «educare alla socialità»!

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