L’apprendimento a scuola, pur essendo un atto profondamente personale, avviene sempre in una socialità condivisa, in una pluralità di relazioni, che ha il suo nucleo fondamentale nella vita della classe. La formazione dei docenti pertanto non può prescindere dal “prendersi cura” della modalità di presenza in classe dell’insegnante, dalla sua capacità di interagire con un gruppo di giovani. La professione del docente infatti ha una forte valenza sociale, non ha nulla a che vedere con l’erudito intellettuale lontano dal mondo.
In un articolo, apparso di recente su una rivista di psicologia,1 si propone, riprendendo un testo di qualche anno fa pubblicato in Francia,2 un’interessante analogia tra la figura del docente e quella dell’arbitro sportivo.
Il docente, come l’arbitro, è chiamato ad incarnare in sé diverse forme di autorevolezza.
Innanzitutto la capacità di far maturare in classe una socialità, una qualità delle relazioni non come esito di una serie di regole contrattate con tutti gli allievi, quanto come espressione della magisterialità del docente, che vuole costruire un clima di studio e di condivisione, finalizzato all’apprendimento in un team di lavoro.
Si tratta di un’autorità che gli viene dal suo essere adulto, più esperto del mondo e dell’umanità.
Il docente – arbitro si caratterizza inoltre per una specifica competenza dei contenuti della disciplina, è infatti impensabile che un insegnante sia in grado di “reggere” una classe, a prescindere dalla comunicazione dei nuclei fondanti della materia e della sua metodologia di lavoro.
Al profilo del docente – arbitro non può mancare inoltre la capacità di costruire relazioni comprensive e individualizzate con i ragazzi. Il maestro è capace di una comunicazione che interpella il singolo, lo chiama in causa, non si indirizza mai a un “noi indifferenziato”, parla a tanti tu, interroga la ragione di soggetti vivi e personali.
L’autorevolezza del docente si manifesta inoltre, soprattutto nelle situazioni più problematiche di gestione della classe, nella padronanza di sé, nel non dare libero sfogo alle emozioni, nell’ evitare la scalata simmetrica con gli alunni. Molte situazioni difficili nascono da una mancanza di chiarezza sulla natura propria della relazione educativa, che è per sua natura asimmetrica.
L’autorevolezza non si improvvisa
Il docente deve indicare la strada, deve determinare un clima, non può lasciarsi sopraffare dalle emozioni, da rivalse verso gli allievi, anche quando sono molto rumorosi e caotici.
La sapiente autorevolezza educativa è equamente distante tanto dall’autoritarismo del rapporto di forza quanto dall’ egualitarismo indifferenziato.
Ma questa autorevolezza del docente, che è insieme di statuto, di competenza, di relazione e di lavoro su di sé, non si improvvisa, la si costruisce nel tempo, ad essa dunque si deve essere formati.
Ci domandiamo allora: Quali caratteristiche dovrebbe avere un iter di formazione capace di generare un docente – arbitro autorevole? Chi ne potrebbe essere responsabile?
Un docente simile al profilo delineato sopra è innanzitutto un uomo intero, che non vive la dicotomia tra ragione e emozione, tipica della modernità.
La sua formazione pertanto non può limitarsi all’aggiornamento sui contenuti della disciplina che insegna, ma deve essere attenta a tutte le dimensioni dell’humanum, anche a quelle affettive.
Come nasce un maestro a cui domandare
La formazione dei docenti ha bisogno di un ampio orizzonte, si tratta infatti di generare un soggetto capace di interrogarsi, di mettersi in discussione, desideroso di imparare sempre, di rischiare un’ipotesi di senso.
Il “docente formato” non prescinde dalla domanda sulla significatività del reale, dal che cosa vale la pena.
Solo il tentativo di risposta a queste domande rende infatti l’insegnamento interessante, capace di ricerca,
Propositivo, attento ad intercettare il bisogno di apprendimento degli allievi.
“Non avere maestro è come non avere a chi domandare e, ancor più profondamente, non avere colui davanti al quale domandare a se stessi, il che significherebbe restare chiusi all’interno del labirinto primario che in origine è la mente di ogni uomo”.3
Il maestro genera continuamente l’umano inteso come razionalità aperta, curiosità del reale, innanzitutto dentro di sé e poi negli allievi.
Quali soggetti possono favorire questa formazione?
Innanzitutto gruppi di docenti esperti, i “vecchi del mestiere”, coloro che non si sono fatti usurare dal tempo, ma che lo hanno attraversato, continuando a domandare, a ricercare, a trovare le ragioni di quello che andavano insegnando.
Un paese che voglia investire nell’istruzione dei giovani, non può calare i suoi piani di formazione dall’alto o demandarli a interlocutori di mondi accademici troppo lontani dalla quotidiana pratica dell’insegnamento.
Insegnare è un’arte, che forse andrebbe imparata come si faceva un tempo nelle botteghe degli artisti, osservando il maestro, che lavorava alle sue opere.
Molti capolavori del passato sono nati sotto la guida di grandi maestri, ma non erano lavori solitari, quanto espressione di un’equipe, come l’educazione è impresa di equipe.
Non si educa nella solitudine, questo i docenti lo sanno, anche se fanno spesso fatica a collaborare, vittime di un individualismo, che si fatica a vincere.
Il confronto tra “insegnanti esperti” e giovani docenti diventa allora la modalità più fruttuosa della formazione, perché si tratta di far crescere uomini e donne capaci di generare l’humanum in sé e nei giovani che hanno davanti.
In questa prospettiva diventa allora chiara l’affermazione di G. K. Chesterton: “Ricordo d’essere arrivato, quasi seriamente, alla conclusione che un ragazzo deve andare a scuola per studiare i caratteri dei maestri”.
[1] A. Oliverio Ferraris, Insegnanti non ci si improvvisa, in Psicologia contemporanea, Giunti, marzo – aprile, 2013.
[2] J. C. Richoz, Gestion de classes et élèves difficiles, Favre, Lausanne, 2009.
[3] M. Zambrano, Per l’amore e per la libertà, trad. di L. M. Durante, Marietti, Milano, 2008.