«Da grande voglio fare l’insegnante». Ecco un desiderio che una volta veniva espresso più facilmente. E spesso. Sia nelle scuole di base, sia nelle superiori.
Oggi una frase di questo genere risuona raramente, dentro e fuori la scuola. Per diverse ragioni: economiche, sociali, culturali … con un denominatore comune: la disistima verso l’insegnamento e la scuola, segno di una crisi molto più profonda, come denunciava Peguy a fine Ottocento: «Le crisi dell’insegnamento non sono crisi di insegnamento; sono crisi di vita». Ancor di più in una società liquida, in cui tutto scorre vorticosamente e sembra non possedere basi su cui poggiare i piedi ed intravedere strade e meta verso cui camminare . «Prof, lei è così bravo ed intelligente, come mai si é messo ad insegnare ?». Queste le parole di una signora ad un giovane insegnante.
Sì, perché mettersi ad insegnare? Chi può fare l’insegnante? Quale è il profilo del docente che sa perché, come e cosa sia insegnare fino al punto da diventare affascinante e far venire voglia di intraprendere la strada dell’insegnamento? Con questo profilo si nasce o almeno in parte lo si impara?
Rispondere a queste domande è un approccio, volutamente terra terra, per evitare di porre il tema della formazione in termini ideologici, sterili, riduttivi.
Nel linguaggio comune parlare di “formazione” è parlare di educazione, di istruzione, di addestramento. In realtà il termine possiede accezioni plurime. Si dice, infatti, formazione e si pensa a diverse cose. Per esempio, a “modalità tipica della vita personale e sociale, quasi una funzione che caratterizza l’evoluzione umana, lo sviluppo storico e il futuro civile dell’umanità intera” (Carlo Nanni), ma anche ad un’ attività plasmatrice, oppure a processo integrativo dello sviluppo personale, o all’abilitazione a ruoli professionali e sociali. L’elemento comune tra queste accezioni è nel concetto di “prendere forma” e/o “dare forma” in funzione di un qualcosa (di una crescita personale, di un ruolo, di un compito, di una professione), di qualcuno ( per se stessi, per altri), ecc.
L’etimologia del vocabolo ci ricorda che “forma” per gli antichi romani era lo stampo per la cera, di metalli vari e, soprattutto, del formaggio. Dobbiamo intendere dunque la formazione ( il prendere, dare forma) come azione del foggiare (e lasciarsi foggiare) a stampo secondo una matrice predefinita da parte di qualcuno o di un sistema? Se sì, di quale stampo stiamo parlando? Esiste forse un prototipo dell’essere docente? Quale?
In italiano “forma” indica anche l’aspetto esteriore di una cosa, la configurazione fisica di una persona, l’immagine di un soggetto, le sue fattezze. In questo contesto semantico riflettere sulla formazione è impossibile senza pervenire a giudizi estetici, morali, logici, esistenziali …, quindi, senza, per esempio, parlare di “formazione completa, superficiale, inadeguata …” . Su questa strada rischieremmo di contrapporre forma e sostanza, forma e contenuto, e magari cercare quella sintesi tra contenuto e forma che Benedetto Croce identificava con “espressione”.
Noi, però, non vogliamo inoltrarci in questa direzione. Ci interessa, in questo momento, continuare ad interrogare l’esperienza e lasciarsi interrogare dalla situazione. Ci chiediamo: qual è la sostanza o il contenuto che genera la forma dell’insegnare fin nella sua espressione adeguata, chiara e concreta? Quando e come si sprigiona, matura e permane questa forma? Sì, “matura e permane”. Non basta, infatti, acquisire la “forma” docente all’inizio, una volta per tutte, occorre mantenerla, riconquistarla, ri-scoprirla. Purtroppo moltissimi dentro e fuori la scuola pensano che la formazione sia semplicemente partecipazione a questo o quel corso, a questo o quel TFA, in vista di un pezzo di carta che attesti la certezza di essere dichiarato ” abile ed arruolato”.
In verità la formazione è esperienza in atto, prima durante e dopo l’ingresso nelle graduatorie, nell’organico, nelle aule. Anche quando appare il miraggio della pensione. Ad insegnare si impara giorno dopo giorno. Si assume la “forma” dell’essere docente di questao quella materia, in questa o in quella scuola, nella verifica continua di ipotesi di cosa sia insegnare ed imparare, di cosa sia la scuola e la materia che si insegna.
Se vogliamo uscire indenni dalla celebre caricatura, disegnata da George Bernard Shaw, «Chi può, fa. Chi non può, insegna», dobbiamo ricordarci e ricordare che la forma docente si impasta con l’essere uomini e donne che imparano e per questo insegnano.
Diventa docente chi affascina ed incide, chi accetta di prendere e ricevere forma in quello che vive, propone e svolge attività mettendo al centro lo studente, spiega ed assegna le lezioni, verifica e valuta lasciandosi foggiare dallo stampo della sua esperienza insieme ad altri colleghi, con i quali segue dei maestri di ieri e di oggi.
Chi è il buon insegnante? Quale forma lo definisce? Come si acquisisce tale forma? E come si mantiene? Se ne potrebbe prescindere?
Questo numero di Libertà di Educazione non risponde proponendo analisi e neppure fornendo ricette. Lo fa da qui a giugno interrogando maestri, raccogliendo la testimonianza di giovani e vecchi colleghi, documentando un metodo che “forma” giorno dopo giorno il docente professionista. « La post-modernità ha travolto anche il riferimento ai metodi come componente di formazione della professionalità docente, sostituendone il concetto con quello di strategie o tecniche di apprendimento, per cui essi diventano sistemi di risposta a situazioni date, e quindi opportunità di successo» ( Cesare Scurati). A noi interessa riaffermare con questo numero che insegnare è un’arte da imparare, un’arte come la poesia, i cui fondamentali, ricorda Ungaretti, sono “ ispirazione, scienza e tecnica”. Dentro questa arte c’è anche il desiderio e la capacità di entrare in rapporto di mettersi a servizio, di lavorare insieme.
Chi da “grande” vuole fare l’insegnante è avvertito: l’insegnamento è una bellissima avventura; chi spera di affidare la sua formazione al TFA può convincersi che l’insegnamento è “intrapresa lunga dall’esito incerto” (O. Reboul) ; chi si sente costretto a stare incollato alla cattedra in attesa della pensione può riscoprire la gioia del mettersi in gioco e, quindi, imparare smentendo Oscar Wilde che in un suo aforisma accusa: « Tutti coloro che sono incapaci di imparare, si sono messi ad insegnare».
Immagine in home page di Giovanni Maciocco