Il problema della formazione degli insegnanti è tornato alla ribalta delle cronache con l’avviamento del TFA. In una situazione quanto mai caotica e incerta per chi voglia cominciare a lavorare nella scuola si fa strada la necessità di fare chiarezza sul problema della formazione dell’insegnante e – soprattutto – su quello ben più radicale della sua identità. Per definire infatti le modalità secondo le quali un futuro prof vada formato al fine di essere ritenuto abile a svolgere il suo mestiere occorre al tempo stesso interrogarsi sulla natura della sua professione: che cosa è chiamato a fare un docente e come può farlo nel modo migliore? Ne abbiamo parlato con il professor Felice Crema, docente di Storia dell’Educazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. (a cura di Tommaso Lanosa, giovane docente impegnato nel TFA)
Professor Crema, qual è secondo Lei la formula per una buona formazione degli insegnanti? Come si forma un insegnante?
La formazione degli insegnanti ha bisogno di tempo, si incrementa pian piano. L’insegnante non è semplicemente il ripetitore o il trasmettitore di un sapere acquisito all’inizio della sua professione. Al contrario: potremmo dire che il percorso della sua formazione coincide con il suo percorso professionale.
La formazione è sempre l’esito di una disponibilità ad accogliere quanto viene proposto, vuoi attraverso un insegnamento formalizzato vuoi dalla consapevole partecipazione alla realtà.
Nel tempo la proporzione tra queste due fonti di conoscenza muta ma i due fattori sono sempre presenti. Per comprendere questo basta riflettere su quanto pesi la propria esperienza di studente nell’idea che ci formiamo dell’essere insegnante già durante la nostra carriera di studenti.
Quindi la formazione dell’insegnante va al di là della sola formazione iniziale?
Formazione ed esercizio della professione non sono mai separabili in tutto il percorso della formazione. Questo lo si capisce molto bene riflettendo su quanto avviene quando si prepara una lezione (e, a maggior ragione, un corso pluriennale). In questo compito di routine l’insegnante si muove sempre avendo due riferimenti: il presente come anticipazione di un futuro molto prossimo e il passato cui ritornare, ripensando le lezioni, già fatte sullo stesso tema, anche alla luce del loro efficacia per l’apprendimento. In questa dinamica entrano in gioco i contenuti (sono ancora adeguati? troppo pochi o troppi?); ci si interroga sui propri allievi, sull’interesse con cui stanno partecipando; più raramente su quale sia il percorso proposto e sul passo con cui gli allievi stanno seguendo.
Un buon insegnante è un soggetto che studia, si forma, ricerca ma soprattutto è presente al contesto concreto (umano, culturale, educativo, formativo) dentro cui si colloca il suo insegnamento. Solo in classe, e nel tempo, si renderà evidente il risultato, più o meno positivo, di questo lavoro.
L’insegnante deve dunque concepirsi come un soggetto attivo non solo nella trasmissione del sapere, ma anche nella sua elaborazione?
Troppo spesso oggi si pensa che l’elaborazione di contenuti e l’indicazione dei metodi siano un compito riservato allo specialista. Ci si dimentica però che se questo per certi aspetti ha delle ragioni convincenti, soprattutto nella prima formazione, la sua accettazione acritica, e perciò totalizzante, da parte dell’insegnante comporta due conseguenze molto gravi.
La prima: ci si dimentica che la gran parte di ciò che si insegna (e ancor più di quello che si impara) non appartiene al sapere accademicamente (scientificamente) definito.
La seconda: che in questo modo l’insegnante è condotto a trasmettere una conoscenza che, anche quando fosse per assurdo perfetta, verrebbe inevitabilmente avvertita come ‘preconfezionata’, separata cioè dal modo con cui il soggetto (allievo ma anche insegnante) conosce in senso proprio. Possiamo seriamente pensare che questi contenuti possano sollecitare l’interesse dell’allievo per l’apprendimento, anche solo scolastico?
In questo processo che ruolo devono avere i manuali adottati?
La posizione che i libri di testo occupano oggi nella didattica è l’esito, ma anche una continua conferma, di quanto appena ricordato. Essi infatti, con la loro mole e la loro pretesa di oggettività e di esaustività, si propongono non come uno strumento per entrare più profondamente nella realtà, ma come un mondo chiuso, che si sostituisce al mondo reale, in cui insegnante e studente sono chiamati a entrare. Mi sembra che nulla possa essere più dannoso sia per le modalità di apprendimento che promuove sia per l’incapacità a sollecitare nell’allievo un interesse allo studio e alla conoscenza.
Questa logica – in cui l’interesse dell’editoria scolastica è dominante anche dal punto di vista dell’indirizzo metodologico e culturale – andrebbe spezzata, con scelte radicali anche se certamente impegnative per l’insegnante e per questo scomode. Saper realizzare propri strumenti didattici non solo occasionali ma pensati come guida all’intero percorso del proprio insegnamento rappresenta oggi un appuntamento per l’insegnante, cui è possibile rispondere solo condividendolo con altri, non necessariamente solo insegnanti, e che, anche per questo, rappresenta una potente occasione formativa.
Alla luce di tutto ciò, che rapporto intercorre tra formazione iniziale e formazione in servizio?
E’ evidente che sia la formazione iniziale sia quella in servizio mettono in gioco ambedue le fonti da cui l’insegnante trae alimento per il proprio lavoro, il sapere costituito e l’esperienza di quella situazione specifica che caratterizza la scuola, non un monolite che si prolunga nel tempo, ma un percorso con forme e con attese che si differenziano nel tempo – si pensi ai diversi cicli – e che si articolano – si pensi alla differenziazione esistente sia per i contenuti che per metodi e motivazioni, tra percorsi tecnici, professionali, liceali. La differenza tra formazione iniziale e formazione in servizio non è perciò ‘strutturale’, orientata da rendere presente una astratta ‘funzione docente’, ma è legata piuttosto alle proporzioni, di tempo e di quantità, con cui le due fonti sono presenti e alle modalità con cui vengono proposte ai fini formativi. Ciò giustifica il maggior peso che nella formazione iniziale hanno aspetti contenutistici (abilitativi, formativi, disciplinari, ecc.), pedagogici e didattici; ma non si può ignorare, o aver conosciuto solo attraverso la propria esperienza di studente, l’ambito in cui si dovrà insegnare, la scuola, una istituzione con una organizzazione per nulla indifferente rispetto alle finalità e alle modalità con cui l’insegnante è chiamato ad operare.
La formazione dell’insegnante non può essere pensata né esaurita dalla fase che precede l’inizio dell’esercizio della professione né dallo studio (e dall’aggiornamento) di un sapere formalmente definito: necessita di tempo ed è un processo lungo che non può mai dirsi concluso.
La qualità professionale del docente dipende dalla sua capacità di integrare la propria formazione accademica con la conoscenza del contesto in cui si è chiamati ad operare e con la consapevolezza che tutto ciò si cala in una realtà costituita da una trama di rapporti, tra adulti e con gli allievi. L’esistenza di una pluralità di riferimenti rappresenta in realtà la più importante ragione che ci permette di parlare dell’insegnamento come di una ‘professione’ in senso proprio, secondo il significato attribuitogli da Ippocrate, 2.500 anni fa, che definì il medico come colui che ‘ha sempre come fine il bene del paziente’ ed è perciò portatore di una responsabilità cui deve far fronte privilegiandone la dimensione ‘etica’ rispetto a quella ‘tecnica’.
E nella dimensione ‘etica’ prende forma il tema dell’educazione mentre nella dimensione ‘tecnica’ sono raccolte conoscenze, abilità, competenze chiamate in gioco dallo specifico insegnamento collocato in quello specifico percorso scolastico che lo qualifica dal punto di vista formativo.
Nella professionalità del docente etica e tecnica sono dunque inseparabili?
Separare queste due dimensioni proprie del mestiere dell’insegnante significa separare il compito di insegnare da quello di educare. Per essere buoni insegnanti non basta ‘conoscere il latino e conoscere Giovannino’ come affermava Dewey, ma occorre anche essere disposti ad ‘incontrare Giovannino’ e ogni incontro avviene sempre in un posto definito che lo segna perché ne stabilisce condizioni e ragioni.
Conoscere il contesto concreto in cui si sarà chiamati ad operare, quindi la scuola che propone un senso e un fine specifico e riconoscibile all’azione di insegnamento/apprendimento, diventa indispensabile. Non basta però conoscerne leggi e regolamenti; occorre ‘incontrarla in azione’, essere cioè partecipi della sua vita, ed è questa la ragione per cui anche nella formazione iniziale occorre prevedere momenti, non piccoli né marginali, in cui il futuro insegnante abbia anche la possibilità di verificare più compiutamente le ragioni e i tratti operativi della propria scelta.