Conversazione tra insegnanti di generazioni diverse sulla scuola come comunità di apprendimento, sulla cultura come unità e sulla forma-azione dell’uomo docente
Metti a confronto una sera, davanti ad una pizza, giovani docenti del TFA e insegnanti over 60, che succede?
In redazione giaceva da tempo un appunto sulla SILSIS (Scuola interuniversitaria lombarda di specializzazione per l’insegnamento secondario).
« Ultimamente – ci aveva scritto Nicola Marai, docente di lettere di scuola superiore – mi è capitato di ascoltare il racconto di come si stanno svolgendo (dove sono riusciti ad organizzarne l’inizio) i corsi TFA. La mente, pur trovando aggravata la situazione, è immediatamente corsa alle situazioni paradossali della SILSIS e mi è stato chiaro che il disastro inequivocabile di adesso è anche conseguenza di un mancato giudizio di allora.
Io per primo, dopo qualche riottosità, mi sono sottomesso ad un sistema di formazione del docente nella speranza che finisse il più presto possibile, pensando unicamente alla mia situazione e a “far bene” (cioè simulare con successo le competenze che richiedevano) …, vista la manifesta vacuità di molti corsi […].
Stato formatore?
Accettando la forma si è così accettato anche il merito della vicenda; si è saliti sul piano inclinato dello statalismo per cui alla fin fine si è iniziato a pensare come ovvio un concetto a ben vedere assurdo ovvero che solo lo stato possa formare i docenti.
In effetti (prendiamoci un attimo per ragionare!) un conto è partecipare ad un concorso per cui ciascuno si prepara secondo i criteri che reputa, trovandosi i maestri che crede, un altro conto è che si debba sottostare alla formazione statale per poi passare un esame di abilitazione: questo è un campo di concentramento!
Ora tanti elementi concorrono a dimostrare che tra i fallimenti evidenti dello stato italiano il più imbarazzante, più imbarazzante del debito pubblico, più imbarazzante dello stato in cui vessa il regime penitenziario, è che lo stato non sappia nemmeno organizzare la formazione dei docenti, nemmeno secondo i suoi asfittici criteri pseudo-nozionistici: ciò, si badi bene, accade non solo per le lentezze burocratiche di un ministero o per l’ingovernabilità, ciò accade perché in ultimo è un progetto totalitario teso a negare una libertà fondamentale: quella di educare.
È solo l’ideale della libertà di educazione che può dar forza reale a qualsiasi tentativo di migliorare il sistema scolastico, a qualsiasi iniziativa didattica: chi, magari per saggezza e opportunità, parta da altro è già bello che spacciato …».
Sta succedendo questo anche nei corsi del TFA? Che ne è della libertà, dell’educazione, del senso …, della formazione?
TFA: cosa vorrebbe essere e com’è
Tra un boccone e l’altro, ma con lealtà e sincera tensione a misurarsi con una proposta di formazione, che i governanti hanno imbastito alla bell’e meglio, “in piedi, in fretta e furia”, osserva subito Francesca, la conversazione tocca le fattezze del Tfa, i suoi approcci, i suoi nei, i punti di forza e di debolezza, le prospettive della formazione e la rifondazione della scuola.
Il tirocinio formativo attivo (TFA), regolamentato dal DM n.249 10/09/2010, ha sostituito le SISS per la formazione iniziale degli insegnanti. Esso ha come finalità l’acquisizione di competenze disciplinari, psico-pedagogiche, metodologico – didattiche, organizzative e relazionali necessarie a far raggiungere agli allievi i risultati di apprendimento previsti dall’ordinamento vigente e di quelle competenze necessarie allo sviluppo e al sostegno dell’autonomia delle istituzioni scolastiche i cui principi sono fissati dal DPR n.275/1999.
« Purtroppo l’approccio – osserva Viola – raccontando la sua esperienza in uno dei TFA di Milano – è debole, esclusivamente teorico, pedagogistico e teorizzante su tutto. È lontano dalla realtà della classe, costruisce castelli in aria».
«Si ha l’impressione generale di lontananza dalla realtà », conferma Maria, corsista in un altro TFA.
«I nostri docenti di didattica – riprende Francesca – sono ricercatori universitari che non hanno mai messo piede in una classe, hanno letto dei libri su che cos’è una classe. Di didattica ci possono dire ben poco. Il TFA è spesso teorico, libresco. Poi certo ce la mettono tutta, alcune cose sono anche interessanti. Però quello che mi interessa non me lo possono dare».
Insegnamento ed unità della conoscenza
Mariella, docente di storia e filosofia, in pensione, spiega che non è l’università che dovrebbe fare questo lavoro; non è l’accademia che dovrebbe insegnare a insegnare. «Per imparare a insegnare bisogna andare nell’acqua alta, bisogna che un maestro ti accompagni laddove l’acqua c’è, ossia bisogna andare a scuola e non stare in università. Può formare un’insegnante solo uno che sta insegnando, non un accademico».
«Se per imparare una cosa bisogna buttarsi nell’acqua alta – si chiede Tommaso, organizzatore della pizzata e compagno di studi di Francesca – perché io sono qua al TFA e la scuola è a quaranta chilometri da qui? Non è l’università che deve formare gli insegnanti: sto imparando molto di più sul posto di lavoro che a lezione del TFA».
«Il problema n.1 è la mancanza di unità tra i docenti del TFA. L’uno, per esempio, spiega i punti di forza degli studenti dislessici mentre l’altro afferma che non ha senso cercare di insegnare loro le lingue straniere» riprende Viola.
La questione è più profonda – noto – quello che manca è che l’università non è uni-versità, cioè non offre un’ipotesi unitaria del sapere e dell’insegnamento, un’ipotesi tale da permettere di inoltrarsi nel mare senza le bende sulla ragione, senza inchini ai signori del pensiero dominante, quello del relativismo, senza finire come il Costa Concordia in frantumi. La scuola è offerta e verifica di ipotesi che la tradizione culturale consegna alle nuove generazioni. Non è mai neutra, neppure quando le si fa indossare le maschere “oggettive” della scienza e le armature della tecnologia. Per questo, se non si vuole finire in un assurdo naufragio, occorre smettere di zigzagare tra opposti profili ideali di docenti: custode del sapere antico o animatore di un villaggio turistico protettivo, tecnocrate burocratizzato o sprovveduto cultore dei valori di cittadinanza, specialista onnisciente o assistente baby sitter … È necessario scegliere non tanto tra teoria e prassi, tra pensiero e tecnica. Occorre andare oltre il paradigma del pensiero analitico, razionalista, oggettivante, incapace di fare sintesi, incatenato all’aut aut.
Il problema allora, per esempio, non è “tecnica sì o tecnica no”. Il problema è che ci sia un soggetto che si applichi mente e cuore, anima e corpo, pensiero ed azione, in unità con altri soggetti, a cercare il vero, il bello, il buono che nutra l’essere umano. La tecnologia è uno strumento, non è il fine. Senza una consapevole soggettività, fatta di unità in sé e con gli altri, imbottito di teorie o di tecniche, inchiodato nell’individualismo nichilista e impagliato dal corporativismo omologante, l’insegnante si autodistrugge lasciandosi diventare “bomba “ per chi gli sta vicino.
«Ogni docente del tfa – racconta Tommaso – dà la sua prospettiva parziale, senza alcuna ipotesi o accenno di sintesi unitaria (il pedagogista e il costruttivista ti dicono che la didattica è tutto, il docente di didattica della storia ti dice che la didattica non esiste, se la sono inventata i pedagogisti perché altrimenti non arrivano alla fine del mese…). Senti dire tutto e il contrario di tutto. Il problema non è che i diversi docenti abbiano idee diverse, è normale che sia così. Il problema è che chi ha pensato il TFA non ha pensato alcuna impronta unitaria e l’esito è la confusione o, nella migliore delle ipotesi, il metodo della scelta arbitraria: ascolto tutti e poi vedo un po’ che cosa mi sembra più simpatico».
«L’unità del reale – precisa Mariella – si svela nell’esperienza. Davanti alla provocazione, in classe, qualunque sia la tua posizione parziale di particolare assolutizzato (l’insegnante tecnologico, il pedagogista…), non reggi il confronto con gli alunni. Ti uccidono, sei costretto a cercare l’ubi consistam nella situazione, che è ondivaga. Se resti nell’accademia disfi e rifai la realtà a tuo piacimento e non hai alcuna pietra di paragone per giudicare la questione. Solo l’esperienza in classe può scoprire una pietra di paragone. Se resti sempre in università non hai, per esempio, il punto di vista (la classe vera) da cui giudicare se ciò che viene proposto è utile o non utile al lavoro da svolgere con gli alunni».
Frammenti e mare di sigle
È proprio così. Il vero docente è un adulto in ricerca, è chi è disposto ad imparare sempre, proteso a cogliere il significato e il senso. L’insegnante è infatti ricercatore compartecipe della grande ricerca degli uomini di oggi e di ieri, di chi ti accompagna, di chi si aspetta qualcosa da te. Non è chi studia i libri, ma chi verifica un’ipotesi dentro la realtà giorno per giorno sempre più convinto della necessità di imparare a nuotare dove c’è l’acqua e non dove ti descrivono come sarebbe entrare in acqua, che effetto farebbe, come si dovrebbe nuotare…
«Gentilissimo professore, – mi scrive un corsista TFA in una città del sud Italia – ho il cervello come un atomo in cui alla nuvola elettronica (probabilità di trovare l’elettrone ) si è sostituita una nebulosa (probabilità di trovare un significato) di sigle (LEP, PECUP, OSA, PEI, DSA, PDP, DF, PDF, POF, CTS, INVALSI, ANSAS, INDIRE etc), termini (valutazione, programmazione, progettazione, indicazioni, autonomia, responsabilizzazione, curricolo, individualismo, personalismo, comportamentismo, costruttivismo, cognitivismo, imparare ad imparare, elaborazione didattica, rapporto pedagogico, operazioni di studio, condivisione, collaborazione, comorbilità, discalculia, disortografia, disgrafia, dislessia, competenze, handicap, disabilità, integrazione, sussidiarietà etc.), leggi, decreti leggi, decreti presidenziali, decreti ministeriali, circolari ministeriali con relativi numeri e date (che non cito perché non le ricordo, tranne la n. 53/2003). E’ faticoso imparare i termini di questo microcosmo senza comprenderne il significato all’interno di una dinamica evolutiva».
Chi mi scrive è Michele, un giovane insegnante precario, il quale, vedendoci «una possibilità di realizzazione umana, professionale e sociale», insieme a molti dei colleghi che posseggono «come me dottorato, specializzazione e quant’altro l’Università possa offrire», ha tentato il concorso della A059 e dell’A033.
«Il desiderio di tentare la strada dell’insegnamento mi ha spinto a iscrivermi agli esami di accesso. La preparazione per il concorso del TFA mi ha richiesto un lavoro molto complesso – innanzi tutto su me stesso – che mi ha portato a rimettere in discussione competenze particolari acquisite in anni di lavoro nell’ambito della ricerca scientifica e rivelatesi inutili per la tipologia di prove di accesso. Queste sono state articolate in una prova preselettiva consistente in un questionario a scelta multipla di 60 domande – superato con un punteggio minimo di 21 punti (0,5 per ogni domanda corretta; meno 0,5 per ogni risposta errata) – seguita dalla prova scritta e, ove superata, quella orale. Purtroppo in molti casi la prova preselettiva si è rivelata inadeguata, come hanno attestato le numerose correzioni a posteriori che hanno “abbuonato” molte risposte errate, consentendo a chi era escluso di essere riammesso alle prove scritte. Questa scarsa chiarezza, questo stile ‘ondivago’ ha reso tutto molto più faticoso. Ri-affrontare un percorso di selezione che è soggetto alla variabilità della commissione che ti deve giudicare implica la recondita consapevolezza del valore della mia persona.
L’altro aspetto di questa ‘vaghezza’ ha riguardato cosa studiare, ovvero gli argomenti su cui prepararsi per superare il percorso selettivo di acceso al TFA. Dopo aver scelto uno dei tanti testi sulla preparazione al test di ingresso ho incominciato ad esercitarmi tentando di ‘entrare’ nella logica delle domande formulate in modo non sempre chiaro. Questo ha richiesto uno studio quotidiano che nulla ha potuto dare per scontato».
Tutto da rifare? Un TFA da buttare nei rifiuti come una pizza bruciata, immangiabile?
«Dopo tanto studio – continua la lettera di Michele – ho superato le prove preselettive ed ho sostenuto 4 scritti, sperando di riuscire ad accedere al percorso abilitante per una classe di concorso. Niente. Certo, non un disastro, ma non abbastanza per accedere all’orale. Lo scritto verteva sulla totalità della disciplina o delle discipline incluse nella singola classe di concorso. Forse ho preteso troppo nel tentare 4 classi di concorso diverse, se pur correlate con la mia laurea… In conclusione posso dire che ne è valsa la pena perché è stata un’occasione per potermi misurare con le discipline; occasione in parte mancata per la vaghezza delle prove e dei criteri di valutazione sottostanti il percorso selettivo».
La rift valley della modernità
Nettamente positivo il giudizio di Giovanni, presente alla pizzata: «A Bergamo l’esperienza è positiva perché c’è un gruppo di insegnanti di matematica che stanno sperimentando in situazioni concrete. È affascinante, c’è in giro della gente interessante. S’impara qualcosa, sto imparando, perché si fanno casi concreti».
Dello stesso parere sono Viola e Tommaso: «Il TFA funziona se e quando si passa dalla teoria alla pratica, cioè se e quando si comincia a entrare in acqua anziché parlare dell’acqua». Un TFA dunque che ha rischiato e rischia di diventare per i più, se non proprio una pietanza indigesta, un’occasione sciupata. Che fare? Occorre recuperare quanto diceva Nicola parlando della SILSIS. Occorre puntare all’unità dentro e tra i soggetti del sapere, della formazione, della scuola combattendo ogni dualismo, nella consapevolezza che la separazione non è solo tra teoria e prassi, ma è molto più profonda e più ampia.
C’è una rift valley culturale enorme a livello epistemologico, metodologico e contenutistico che attraversa la cultura, l’educazione e quindi la formazione di chiunque, che ostacola la conoscenza e fa traballare la scuola ed ogni altra realtà educativa.
«La scuola moderna, come noto, si è costituita e giustificata, negli ultimi secoli, sull’idea stessa della separazione. Separazione dalla famiglia, dalla società, dall’ambiente, dall’impresa. […] Separazione, inoltre, dentro e fuori la scuola , tra mano e mente, tra cuore e logica, tra tutte le diverse componenti di ogni persona (psichica, espressiva, comunicativa, sociale, cognitiva, manuale, etica, religiosa, il cui trattamento è affidato a tempi, luoghi, contesti, istituzioni programmaticamente differenti.[…] Paradigma che corrisponde a quello anche epocale, del resto, visto che la modernità è il periodo durante il quale si è assistito alla prolificazione di parecchie altre teorizzazioni divisorie, tutte ritenute opportunità invece che avversità culturali. Separazioni rivendicate, per esempio, tra filosofia e vita, tra umanesimo e scienza, tra scienza e tecnica, tra arti e tecnica, tra metafisica e diritto, tra diritto ed etica, tra morale e religione, tra economia e morale, tra economia e finanza. Separazioni al cubo, insomma. Una netta vittoria del dia-bolico rispetto al sim-bolico» ( G. Bertagna, Fare Laboratorio, La scuola, 2012, pag. 62 ss).
Tensione all’autentica “forma” dell’io e del noi
Metti dunque a confronto una sera, davanti ad una pizza, giovani docenti del TFA e insegnanti di lungo corso, che succede?
Succede che si prende atto magari di un sconfitta, ma nello stesso tempo si riscopre che è possibile ricominciare la partita e puntare alla vittoria. Come? Mettendosi in gioco, insieme, come si diceva nell’editoriale di questo numero della rivista, accettando consapevolmente e liberamente di prendere, ricevere e dare “forma” di uomo nel rapporto con la totalità del reale che si pone, giorno dopo giorno, nella sua pregnanza, complessità e storicità.
La scuola, in quanto comunità di apprendimento a livello sincronico e diacronico, poggia sulla consapevolezza che siamo nani sulle spalle di giganti con i quali è più agevole e certa l’avventura della conoscenza. La formazione dei docenti sia iniziale sia in itinere è vivificata e dinamicizzata da questa consapevolezza e tensione all’autentica “forma” dell’io e del noi. Parliamo non di una comunità virtuale (ammucchio di cervelli senza volto sul web), ma di una comunità in carne e ossa, che si forma e ri-riforma, mettendo al centro la persona nella sua concreta fisicità, nel suo evidente mistero, nell’essere in relazione con l’Infinito, “senza mai lasciarsi rubare la speranza”.