Tempo di esami, eccezionale, questo fine giugno 2013. Impegnati a sostenere prove non sono solo gli studenti, ma migliaia di uomini e donne aspiranti all’abilitazione all’insegnamento tramite il TFA, i cui candidati iniziali erano 115.553, gli ammessi attuali 46.886.
Come i ragazzi degli esami di licenza media e come i giovani dell’ultimo anno di scuola superiore, forse loro alunni, devono essere valutati e sperare di essere riconosciuti abili e possibilmente arruolati. A partire da questo dato abbiamo pensato di chiudere il numero 34 di Libertà di Educazione dialogando sul rapporto valutazione e formazione con il prof. Ermanno Puricelli, dirigente scolastico, impegnato da anni in attività di ricercatore e formatore, collaboratore con il CQIA (Centro per la Qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento ) dell’Università di Bergamo, membro del gruppo tecnico istituito presso il MIUR per l’armonizzazione delle Indicazioni nazionali. A lui abbiamo posto domande attorno a tre questioni. La prima: come “vecchi” e nuovi insegnanti sono aiutati ad imparare a valutare. La seconda: come viene valutata la formazione in ingresso ed in itinere nel sistema scolastico italiano. La terza: quanto le pratiche valutative in atto nelle diverse scuole caratterizzano la professionalità dei docenti.



Nel percorso formativo di un docente le competenze relative alla valutazione si dovrebbero collocare in posizione prioritaria per la natura stessa della valutazione come dimensione fondamentale che precede, accompagna e segue ogni atto didattico. Come i docenti in Italia vengono formati alla valutazione?
Certamente tra le competenze specifiche della professione docente quelle relative alla valutazione sono tra le più importanti, sia per la pervasività entro l’azione didattica, sia per l’impatto che hanno sui processi di apprendimento e sulle relazioni scuola/famiglia che esigono, in proposito, trasparenza, correttezza ed equità di trattamento. E’ per questo che, dalla fine degli anni ’70, il tema della verifica e valutazione è diventato un nodo centrale nel percorso formativo di ogni docente.
In che modo poi i docenti italiani vengano formati alla valutazione è questione che richiede di essere declinata rispetto ai diversi ordini di scuola. Mentre non vi è dubbio che, per i docenti di scuola dell’infanzia e primaria, le pratiche valutative sono parte integrante del piano di studi o formazioni iniziale, ribadita durante la formazione in ingresso e in itinere, nel caso dei docenti di scuola secondaria di primo e secondo grado, il percorso formativo è più sfrangiato e occasionale, per cui non sempre chi siede in cattedra ha potuto fruire di una specifica formazione alla valutazione, se si prescinde da quella frettolosa acquisita in occasione di concorsi e/o corsi di formazione.



Si è puntato e si punta ancora molto spesso a formule come l’aggiornamento (spesso tra l’altro ridotto ad un rito con partecipazione più o meno obbligatoria dove insegnanti più o meno interessati sembrano assistere all’omelia dell’ esperto di turno). È ancora valida questa pratica di formazione?
La formula dell’aggiornamento, intesa come attività durante la quale un relatore passa in rassegna i temi e gli aspetti più rilevanti della verifica / valutazione, è indubbiamente ancora di molto presente nella realtà scolastica. Si tratta però di una modalità che può avere un suo senso, solo se la si pensa come momento informativo, ossia come momento introduttivo o di esplorazione preliminare di un problema; non si può certo pretendere che questa modalità possa modificare le pratiche individuali e collettive di valutazione all’interno di una scuola. Per questo sono necessarie altre modalità che puntino sulla simulazione, sulla ricerca-azione, sulla formula del laboratorio, sull’analisi di caso, ecc. Molto interessante e produttiva sembra essere in proposito la metodica dell’analisi delle pratiche, che richiede un atteggiamento riflessivo e guidato rispetto al proprio agire in situazione.



Presso ogni istituto scolastico è istituito il “Comitato per la valutazione del servizio dei docenti”, formato, oltre che dal dirigente scolastico, che ne è il presidente, da 2 o 4 docenti, eletti dal “Collegio dei docenti” nel suo seno. Il Comitato ha il compito di valutare l’anno di formazione del personale docente, riabilitare il personale docente su loro richiesta, esprimere parere sulla conferma in ruolo dei docenti in prova. Cosa ne pensa? Lo considera funzionale, valido? Perché?
Il “comitato di valutazione” è un organismo pensato per fronteggiare adempimenti amministrativo e burocratici, più che per una valutazione effettiva del servizio dei docenti. Per questa ragione è convocato, di norma, in occasione della valutazione dell’anno di servizio dei docenti neo immessi in ruolo; circostanza in cui, al di là della ritualità propria di ciascun istituto, se non si sono verificati eventi straordinari o particolarmente negativi, si limita a prendere atto che un anno è trascorso, confermando l’immissione in ruolo del docente.
Per fare di questo istituto uno strumento effettivo per valutare la formazione e il servizio dei docenti sono necessari alcuni cambiamenti: intanto, perché sia autorevole, è importante che la sua composizione sia meno aleatoria, nel senso che dovrebbe farne parte personale specificamente formato per l’assunzione di un compito così delicato e di responsabilità; dovrebbe poi essere convocato più frequentemente e, segnatamente, in ogni circostanza in cui studenti e/o genitori sollevano dubbi circa la qualità professionale dei docenti; dovrebbe avere poi un potere sanzionatorio e d indirizzo, nel senso di obbligare i docenti considerati carenti sotto qualche profilo a svolgere attività di formazione in servizio mirate. Per quanto riguarda, poi, lo specifico dell’anno di formazione, perché non richiedere ai docenti neo immessi, come si faceva nelle botteghe artigiane, la messa a punto di un “capolavoro didattico”, da cui si possano evincere in concreto la professionalità del docente e giudicare le sue competenze progettuali, metodologiche, relazionali, ecc.

Per un docente neo nominato, che si trova per la prima volta nelle condizioni di mettere alla prova ciò che ha precedentemente appreso nella fase di studio, di tirocinio, di preparazione al concorso e le sue caratteristiche vocazionali, è previsto un tutor che lo accompagni con azioni mirate ad integrarsi nel contesto esercitando il proprio ruolo da protagonista. Il tutor, in altre parole, dovrebbe assistere il docente in anno di formazione “… per quanto attiene gli aspetti relativi alla programmazione educativa e didattica, alla progettazione di itinerari didattici, alla predisposizione di strumenti di verifica e valutazione” Cosa consiglierebbe a questa particolare figura proprio per aiutare il neo-docente nell’acquisizione di competenze valutative?
In linea con quanto già detto a proposito del comitato di valutazione e a maggior ragione, anche il “tutor” dovrebbe essere un docente realmente esperto, credibile e autorevole, motivato a fare questo genere di lavoro – qualità che non sempre sono disponibili, posto che, non di rado, la designazione del tutor è un’operazione di tipo residuale. Per aggirare questo problema, sarebbe opportuno, per esempio identificare, all’interno del Collegio, docenti professionalmente ineccepibili, oltre che capaci di relazionarsi con i colleghi, che assumano stabilmente questa funzione, sia per guidare in modo efficace i neo immessi in ruolo, sia anche per accogliere i supplenti temporanei e trasmettere loro la cultura didattica, pedagogica e organizzativa della scuola. Nell’ottica di una bottega scolastica, dovrebbero essere, a tutti gli effetti, maestri di educazione e didattica.
Posto che tali figure siano disponibili, credo che il modo ottimale per far crescere nei nuovi docenti le competenze valutative sia quella di valorizzare l’esempio concreto. Intendo dire che il tutor dovrebbe mostrare direttamente, come si verifica e si valuta, ossia come si prepara, corregge e valuta una prova, relativa ai saperi o alle competenze, e così via, alla luce del normativa vigente e del dispositivo di valutazione deliberato a livello di istituto. Si tratta poi di chiedere al neo immesso di dare corso alle procedure esemplificate e di affiancarlo nello svolgimento di queste operazioni, discutendone insieme i momenti critici e le difficoltà. Dunque non solo esempio, ma anche riflessione critica sull’operato concreto, secondo la logica dell’analisi delle pratiche. Lo stesso vale per la progettazione didattico educativa nel suo insieme. Anche qui insisterei sulla logica del rapporto maestroapprendista avanzato.

 

Al termine di iniziative di formazione istituzionali e non, di singoli istituti, di reti di scuole, spesso, viene proposta una valutazione del gradimento dei partecipanti, della qualità degli interventi formativi e del loro impatto anche sulle scuole. Si tratta – come sa – di un’operazione condotta attraverso modalità come la somministrazione di questionari, l’elaborazione dei dati sulle iscrizioni e sulla partecipazione dei docenti e delle scuole; la categorizzazione e l’analisi dei materiali prodotti da corsisti e dal team. Quali considera tra queste ottimali? Cosa proporrebbe di diverso? 
Il problema della valutazione delle iniziative di formazione presenta, in realtà, diversi lati: c’è il problema di valutare la qualità (efficacia, efficienza, ecc.) dei formatori; quella di valutare la qualità dell’attività di formazione (utilità, rispondenza alle esigenze dei corsisti, capacità di modificare idee e comportamenti, ecc.), quello della valutazione dei corsisti (livelli di motivazione, di partecipazione, di apprendimento, ecc.); quello della ricaduta effettiva delle attività di formazione a livello individuale e istituzionale.
A mio modo di vedere, gli strumenti da lei ricordati o sono troppo marginali ed esteriori (dati sulle iscrizioni, categorizzazione dei materiali prodotti) o sono troppo centrati sulla qualità dei formatori e delle attività (questionario di gradimento – come se partecipare a un’attività di formazione sia equiparabile ad assistere a uno spettacolo). Se i corsi di formazione sono programmati e realizzati per favorire il cambiamento e l’innovazione nelle idee dei partecipanti e nei loro comportamenti individuali e collettivi, allora la domanda cruciale è un’altra: quali cambiamenti il corso ha indotto nei partecipanti?
Posto che l’attività di formazione non possa essere equiparata ad una forma di intrattenimento, sia pure sui generis, si tratta, allora, di mettere al centro della valutazione proprio gli apprendimenti effettivi dei corsisti, in termini di conoscenze, abilità, competenze, atteggiamenti e valori professionali; magari con un questionario o un focus group iniziale e uno conclusivo, così da rilevare le differenze o il valore aggiunto apportato dal corso. Solo a partire da qui si può pretendere di valutare obiettivamente l’efficacia dei formatori e la qualità del corso.

 

In più Paesi europei sono in atto vari modelli di accountability degli insegnanti in quello che potremmo definire formazione in itinere manifesta : dalla tradizionale ispezione esterna individuale basata sui processi, all’autovalutazione della scuola, che include la valutazione standardizzata degli apprendimenti degli alunni, passando dalla valutazione individuale interna effettuata dal capo di istituto. Perché in Italia questa pratica è osteggiata e poco curata? 
Sì, in effetti, si potrebbe parlare dell’accountability come di una sorta di formazione in itinere per i docenti, nel senso che si tratta di pratiche che non possono non avere a ritroso effetti sull’operato concreto di ciascuno insegnante. Le ragioni per cui questa esigenza di trasparenza non trova terreno fertile in Italia sono, ovviamente, molteplici. Qui posso tentare di elencarne solo alcune: in primo luogo, c’è una visione distorta, direi quasi sacrale, della libertà di insegnamento (peraltro giustamente sancita dalla Costituzione), quasi delimitasse un’area professionale sottratta di principio a qualsiasi diritto di intromissione e di critica; sopravvive, inoltre, nella scuola italiana una cultura sindacale in ritardo rispetto a questi temi, che tende a leggere ogni richiesta di trasparenza come se fosse una pesante limitazione dei diritti professionali dei docenti. 

E poi, ancora: ci sono forti resistenze psicologiche da parte dei docenti e dei dirigenti, poco inclini a dare conto pubblicamente del proprio operato e a mettersi a nudo sotto, quanto alla qualità del proprio operato e dei risultati conseguiti. Queste resistenze, a mio modo di vedere, sono riconducibili a due motivi di fondo: il primo è che tanti docenti , in modo più o meno consapevole, si rifanno ad un modello professionale di ascendenza gentiliana, secondo cui per insegnare bene è sufficiente conoscere a fondo la propria materia; se è così, una volta garantita questa premessa, quando le cose non funzionano, la responsabilità deve essere cercata sul versante degli alunni/studenti, per cui non c’è altro da approfondire. C’è poi un secondo motivo più consistente, ed è da vedere nel fatto che, le poche esperienze tentate in questa direzione (si veda il caso della valutazione dei dirigenti scolastici) sono parse viziate dall’ insignificanza degli indicatori presi in considerazione, dall’eccessiva macchinosità, e dai fin troppo ampi margini di arbitrio nella valutazione. Prendiamo, in particolare, il caso citato della valutazione individuale effettuata dal capo di istituto. E’ davvero in grado un dirigente di conoscere e valutare adeguatamente l’operato dei propri docenti? Per esserlo dovrebbe essere molto più a contatto con la didattica di classe, con gli insegnati e con i genitori, come ai tempi dei “direttori didattici”, di quanto oggi non sia possibile. Oggi, paradossalmente, un dirigente conosce bene e direttamente solo le “pecore nere”, mentre di tutti gli altri dispone, per lo più, di informazioni mediate. Non c’è, dunque, solo il problema dell’accountability dell’operato di un professionista, ma anche quello di un’adeguata valutazione, di quanto il docente rende manifesto circa il proprio operato. Se questo è il quadro, chiunque voglia imboccare seriamente questa strada dovrebbe farlo con molta cautela, esplicitando e condividendo il modello di riferimento, gli strumenti, i soggetti, gli indicatori di riferimento, le procedure, e così via.

 

 

 

Abbiamo visto che si può indirizzare la formazione alla valutazione e che si valuta per formare. Ci chiediamo ora, sulla scia di alcuni studiosi, soprattutto francesi, che parlano di valutazione formante o dell’uso formante della valutazione: “Quanto la pratica valutativa del docente forma o deforma” la sua azione educativa e didattica? In altre parole, “Possiamo dire che ci si forma valutando?”
Abbiamo parlato poco fa di analisi delle pratiche; si tratta di un modello di formazione che si è sviluppato in Francia grazie a studiosi quali Blachard-Laville, Fablet, Perrenoud, Altet e altri. Secondo questi autori una delle componenti fondamentali della professione docente è rappresentata dalla capacità di regolare l’interazione educativa e didattica in classe, mediante la giusta valorizzazione dei feed-back di cui si dispone. In Italia posizioni analoghe si trovano in Bertagna (Valutare tutti, valutare ciascuno). Ciò significa, in sostanza, che un’effettiva regolazione dell’attività di insegnamento e apprendimento richiede una continua valutazione formativa, la quale concerne sia le procedure impiegate dall’insegnate, sia quelle utilizzate da uno studente durante l’attività di apprendimento. Per usare un’immagine, lavorare in classe è come guidare un’auto: se in mancanza di un costante feed-back in auto si va a sbattere, allo stesso modo senza una costante valutazione formativa non si può né insegnare né apprendere in modo efficace. In questo senso si può certamente affermare che “ci si forma valutando”.

 

Si parla tanto e a volte a sproposito dell’INVALSI . Senza entrare in merito del dibattito sulla sua legittimità e validità, domandiamo: “Quali effetti e quali condizioni le prove Invalsi possono provocare nella formazione delle attività valutative della scuola italiana?”
A proposto dell’INVALSI credo sia necessario riflettere, oltre che sul suo lato luminoso, anche su quello oscuro, che è poi quello che alimenta prese di posizioni forti persino di tipo sindacale. Non c’è dubbio che le prove INVALSI trovino il loro terreno di elezione in sistemi scolastici fortemente centralizzati e omologati, quali ad esempio quello olandese o francese. In effetti, il contesto ottimale in cui proporre prove standardizzate a livello nazionale è quello in cui si fanno le stesse cose, negli stessi tempi e allo stesso modo; dove non ci sia attenzione per i BES (coerentemente da escludere, non da includere come si usa dire, perché falsano la media), e così via. Questa non è però la storia della scuola italiana che è fatta di mille particolarità, che è fatta di autonomia funzionale, che prevede Indicazioni nazionali le quali, in teoria, lasciano ampi spazi alla progettazione curricolare; che prevede in prospettiva ampi spazi per la personalizzazione dei percorsi; che ha recentemente spostato l’asse educativo e didattico in direzione delle competenze, che, come è noto, non sono accertabili con prove standardizzate.
Quali potrebbero essere gli effetti delle prove INVALSI sulla nostra scuola? E’ mia convinzione che tali prove, nel lungo periodo costruiranno una scuola adatta alle loro esigenze, cioè una scuola omologata e uniforme – persino su scala mondiale. Chiunque pratichi la scuola sa quanto le prove INVALSI condizionino, già oggi, i comportamenti didattici e valutativi dei docenti, e sempre più lo faranno come testimonia anche il rigoglio editoriale su come fare bene queste prove. Se questo sia un bene o un male non è questione che si possa affrontare in poche battute.
Credo però che il nostro sistema scolastico debba sforzarsi di immaginare sistemi di valutazione esterni più in sintonia con la storia e le caratteristiche della nostro scuola. Per esempio, la qualità si può promuovere più con la vis a fronte di ideali condivisi, che non con la vis a tergo delle valutazioni standardizzate.