Un contributo al dibattito sulla situazione della formazione docente, sviluppatosi a partire dalla pubblicazione dell’articolo del Forum delle associazioni. Ci viene da un soggetto quale Diesse Lombardia che, misurandosi continuamente con le esigenze formative dei docenti, propone linee-guida per la rinascita del sistema scuola.
Professoressa Ferrante, che cosa ne pensa dell’attuale situazione della formazione degli insegnanti?
Come appare chiaro dai diversi articoli di questo numero di LIBED, la questione della formazione, sia iniziale sia in itinere, che risulta essere centrale perché la proposta scolastica possa essere adeguata ai bisogni formativi dei giovani, in realtà è da alcuni anni completamente ignorata con conseguenze gravi per la scuola.
Basti pensare a che cosa è successo nel momento della iscrizione ai TFA: una massa di aspiranti docenti di contro all’attivazione di un numero limitato di posti. Oppure ancora a quanto sta succedendo oggi in Lombardia dove si è deciso di promuovere – con accordo fra Regione e Ministero – l’introduzione delle TIC nelle scuole secondarie di secondo grado con un notevole investimento economico e senza mettere in atto contemporaneamente un’iniziativa formativa, con l’esito inevitabile di uno spreco delle risorse investite a fronte di un corpo docente spesso non preparato ad usare le nuove tecnologie.
Come mai questa dimenticanza?
Il problema della formazione dei docenti ha sempre accompagnato in modo più o meno grave il cammino della scuola italiana, salvo forse l’unica parentesi del governo Berlinguer dove si incentivò la formazione come possibilità per ottenere un aumento di stipendio (i famosi “gradoni”).
Oggi si dice che la questione è economica e che non ci sono risorse per la formazione, vista la necessità dei tagli nel settore scuola. In realtà – poiché questa disattenzione o negazione della importanza della formazione del personale docente non è di oggi– occorre indicare altre ragioni. Anzitutto la scelta politica di indirizzare la spesa consistente nel comparto scuola prevalentemente o quasi esclusivamente sulla assunzione del personale (una specie di ammortizzatore sociale per la disoccupazione intellettuale dei laureati). In secondo luogo l’opposizione di gran parte dei sindacati ad ogni tentativo di diversificare le competenze dei docenti perché ciò potrebbe comportare una diversificazione nei ruoli e nei compiti da loro svolti nella scuola fino ad introdurre diversità di stipendio e di carriera. Da ultimo il discutibile risultato della formazione erogata dagli enti statali man mano succedutisi nel tempo (l’IRRSAE, l’IRRE e infine l’ANSAS): a fronte di notevoli costi di questi organismi – concepiti in modo centralistico e sovrabbondanti di personale in distacco dalla scuola – gli esiti della formazione erogata non sono mai stati verificati in modo adeguato e significativo.
Come potrebbero cambiare le cose?
Semmai in chi governa si facesse strada la convinzione, presente negli altri paesi europei, che la spesa scolastica – e quindi anche l’aggiornamento dei docenti – è un investimento prezioso (in realtà, è un ‘moltiplicatore’ dell’efficienza delle risorse già impegnate) in vista dello sviluppo del Paese, si dovrebbe mettere in discussione il fatto che la formazione dei docenti debba essere erogata in prevalenza dallo Stato attraverso i suo istituti (oggi l’unico sopravvissuto, ovvero l’INDIRE). Anzi, in epoca di scarsità di risorse economiche sarebbe necessario valorizzare le risorse umane e culturali che già esistono sul territorio: le Università e le associazioni accreditate per l’aggiornamento dallo stesso MIUR.
Se si ammette una molteplicità di soggetti formatori, chi sceglie tra il ventaglio di offerte e come?
Alle scuole ed alle reti di scuole, in un reale e serio esercizio della loro autonomia, dovrebbe andare la responsabilità di scegliere la proposta formativa valutata più idonea per sostenere il lavoro dei propri docenti e per trovare soluzioni ai problemi specifici dei propri utenti. Si tratta di svincolare l’aggiornamento e la sua forma dalla esigenza della ‘uniformità’ che uccide la creatività e impedisce lo sviluppo dell’autonomia.
In questa prospettiva qual è il ruolo dello Stato?
Da erogatore del servizio, lo Stato dovrebbe diventare il certificatore degli esiti (positivi o negativi) del processo di formazione/aggiornamento scelto dalle istituzioni scolastiche e dai docenti di una singola scuola o di reti di scuole.
Quali sarebbero operativamente i passi da compiere?
Bisognerebbe anzitutto sostenere e garantire la possibilità di una pluralità di proposte di formazione/aggiornamento: plurali perché proposte da diversi soggetti (Indire, Università, associazioni) e perché diversificate nei contenuti.
Inoltre occorrerebbe individuare standard formativi a cui gli enti che offrono formazione debbano corrispondere per essere accreditati: per esempio, certificazione di qualità, curriculum dell’ente e dei formatori. Già Berlinguer aveva previsto ciò quando, con direttiva n. 05 del 01/07/96, aveva stabilito che le associazioni professionali e gli enti potevano organizzare autonomamente attività di formazione ed aggiornamento del personale scolastico riconosciute a tutti gli affetti.
Infine si dovrebbe formare un gruppo di certificatori che verifichi – a distanza di un certo periodo – quanto la formazione realizzata abbia consentito di adeguare la proposta della scuola alle esigenze formative dell’utenza per poter rinnovare l’accreditamento a quegli enti che hanno raggiunto risultati apprezzabili. Esperienze analoghe si stanno sperimentando in modo positivo in altri campi: per esempio in Lombardia le agenzie, accreditate presso la Regione, per il reinserimento dei lavoratori disoccupati devono dimostrare di aver accompagnato il lavoratore (tutoraggio, orientamento, formazione/riqualificazione) fino al reinserimento in un posto di lavoro e solo così riottengono l’anno successivo la possibilità di concorrere ad altre doti lavoro.
Quanto è lontana la situazione attuale dall’ipotesi che ha descritto?
Oggi solo le proposte formative erogate dalle Università sono riconosciute dal Ministero, attribuendo esclusivamente ai master e ai corsi di perfezionamento universitari un punteggio utile per le graduatorie, anche quando i corsi offerti siano solo online e dai contenuti molto discutibili.
Non si tratta qui evidentemente di contestare il ruolo delle Università rispetto alla formazione, ma semplicemente di dichiarare con forza che il tipo di preparazione che esse offrono non è l’unico possibile. I formatori che hanno esperienza nella scuola – come quelli che si trovano nelle proposte formative attuate dalle associazioni professionali – sono in grado di coniugare nell’aggiornamento contenuti teorico-scientifici e riflessioni sull’esperienza in atto. Svolgono quindi efficacemente il ruolo di tutor e mettono in grado il docente di raggiungere gli obiettivi che la formazione/aggiornamento dovrebbe proporsi attraverso un accompagnamento guidato: miglioramento delle competenze utili a saper individuare i bisogni formativi degli studenti che si hanno di fronte e a saper creare ambienti di apprendimento in cui il giovane non sia solo spettatore passivo ma interlocutore attivo e responsabile.
Non mi sembra comunque condivisibile indicare in modo univoco e dirigistico i contenuti da privilegiare in una formazione in itinere. Sono infatti convinta che le proposte possano e debbano essere diverse e che vada lasciata alle scuole la responsabilità di scegliere il percorso ritenuto più idoneo.