«Ogni uomo, in definitiva, decide di sé. E, in ultima analisi, l’educazione deve essere educazione a saper decidere» (V. Frankl). Il compito della scuola è senza dubbio quello di aiutare i ragazzi a crescere in questo percorso di decisione di sé e del proprio futuro scolastico e professionale.

Qualche anno fa, all’inizio di una classe terza di un istituto superiore di primo grado, entrando in aula ho guardato i miei ragazzi e sono stata investita da tante domande, che sono poi diventate oggetto di dialogo con loro nei primi mesi di scuola: “Cosa vibra in loro come coscienza di sé, dopo questo percorso triennale? Quale visione del mondo “esterno” hanno maturato? Quali desideri di compimento sono nati in loro? Quale gusto di “fare e vedere” hanno scoperto? Quali aspettative hanno verso di sé e verso il mondo?” Non era un gruppo brillante e insistenti sorgevano altre domande: “Quale percezione del lavoro hanno? Quali esperienze hanno incontrato? Quali possibilità possiamo offrire loro?”



Mi accorgevo che le possibili strade di risposta – o almeno di approccio reale e personale – a domande tanto importanti erano state davvero poche e si concentravano quasi totalmente in quei mesi iniziali (ottobre–gennaio), durante i quali si affollavano iniziative, uscite, incontri informativi sui possibili percorsi successivi a quell’ultimo anno.



In questa ridda di attività, purtroppo spesso estrinseche alla didattica e “altro” dal fare scuola, ho pensato di inserire una riflessione sul mondo del lavoro. Troppo spesso questa parola è misconosciuta, ignorata o sentita negativamente dai ragazzi; troppo spesso ha un significato solo economico; troppo spesso l’esperienza che vedono in famiglia è priva di soddisfazione; troppo spesso, infine, l’esperienza che vivono a scuola (studio, valutazioni, socialità) è distante da quel mondo lavorativo a cui pure vanno incontro.

Così, arrivano all’ultimo anno della scuola superiore di primo grado ed avvertono l’ipotesi di uno sbocco professionale, di un percorso formativo professionalizzante, di un apprendistato, come opzioni di scarto, conseguenza di un mancato successo scolastico o di un non meglio identificato “disagio” che sconsiglia la prosecuzione degli studi.



Questo ha tre cause sostanziali.

In primo luogo una separazione netta fra “fare scuola” e “lavorare”, fra studio teorico e operatività. Una dicotomia, questa, rintracciabile in tante opposizioni ancora irrisolte (laboratorio/lezione frontale, conoscenze/competenze, deduzione/problem solving, eccetera) generate da una percezione delle discipline come oggetti e non, anche, come strumenti di apprendimento introduttivi a metodi diversificati di lettura del reale.

In secondo luogo una certa visione del lavoro, figlia di un secolo scristianizzato, liceizzato ed infine sindacalizzato, che ci ha condotto impercettibilmente a vivere il nostro più alto strumento di realizzazione come una condanna e una pena.

Da ultimo, una serie di riforme scolastiche che, negli anni, hanno fortemente penalizzato centri ed istituti scolastici di area professionalizzante. Per esempio, in una delle ultime riforme è stato limitato il quadro orario delle discipline di indirizzo negli istituti professionali, così come le ore di laboratorio e i legami col mondo lavorativo; al contrario, è stato incrementato il numero di materie teoriche al biennio nel tentativo di ampliare le conoscenze degli alunni. Il risultato è stata la diminuzione delle competenze proprio nelle aree che avevano motivato la scelta di quella scuola o di quel centro.

Per affrontare tali questioni ho deciso di dedicare del tempo a riflettere sul lavoro assieme ai miei ragazzi di terza. Ci siamo prefissi l’obiettivo di realizzare anche un prodotto finale, ovvero un libro-catalogo articolato in una serie di testi (scritti o selezionati da loro) accompagnati da immagini esplicative.

Il lavoro si è articolato in tre momenti.

1. La riflessione è partita dalla lettura dell’articolo 4 della nostra Costituzione e da un iniziale brainstorming intorno alla domanda: «Perché è necessario lavorare?». Per accompagnare i vari tentativi di risposta ho proposto loro alcune letture: L’omino della gru di Rodari, Ogni uomo al suo lavoro di Eliot, alcuni brani tratti da Il denaro di Peguy.

Un secondo brainstorming ci ha aiutato ad approfondire la questione, spostando l’accento da una condizione di necessità ad una di significato esistenziale: «Perché è importante lavorare?». Raccolte le nostre risposte, abbiamo cercato ulteriori ambiti ed esempi, in altri luoghi ed anche altri tempi, e ci siamo paragonati con essi.

 

2. Per far questo abbiamo spostato il nostro sguardo al territorio circostante e, per quanto possibile, al resto del mondo, sia nel passato sia nel tempo attuale. Utilizzando materiali di vario tipo (riviste, libri, internet, eccetera) abbiamo creato due sezioni del libro intitolate Lavorare ieri / lavorare oggi Lavorare qui / Lavorare altrove. Nella prima sono state inserite immagini che evidenziano le differenze di metodi, strumenti, ambienti, tipologie di lavoro fra gli inizi del secolo XX e gli inizi del secolo attuale. Nella seconda l’attenzione si è centrata soprattutto sul nostro territorio e sulle possibilità che esso offre come risorse, tradizioni e specificità produttive rispetto al resto d’Italia e ad altri Paesi.

 

3. L’ultima sezione del libro è stata divisa in tre parti: Lavorare come, Lavorare perché e Lavorare io.

La prima parte contiene due sole immagini: La sedia di Van Gogh ed il capitello di una colonna di una cattedrale francese. Abbiamo riflettuto insieme sulle modalità di lavorare: la cura, la pazienza, la gratuità, l’attenzione al particolare: tutti fattori che rendono una sedia impagliata unica come un’opera d’arte.

Nella seconda parte abbiamo inserito un’intervista ai genitori di ogni alunno. I ragazzi hanno loro rivolto la domanda «Perché lavorate? Qual è lo scopo del vostro lavoro?». Questa è stata un’attività che li ha entusiasmati, forse perché è stata la prima reale occasione di confronto su pensieri ed esperienze familiari di cui loro sono spesso all’oscuro, per una mancanza di dialogo diffusa nelle famiglie e che li priva di una compagnia e di una guida stabili relativamente ad un argomento invece così importante.

Infine, nella terza parte, ogni ragazzo doveva scrivere il suo progetto, il suo sogno, il suo desiderio rispetto al lavoro, abbinando il testo ad un’immagine esplicativa del mestiere descritto.

 

Il lavoro si è concluso con un colloquio fra i docenti e le singole famiglie, alle quali come di consueto è stato consegnato il “consiglio orientativo”. L’aspetto più difficile è accogliere le ansie e i desideri dei genitori, cercando di convertirle in aspettativa libera rispetto al cammino dei figli. Spesso il loro giudizio o l’idea che hanno del figlio è l’ultima parola sulla scelta, anche nell’animo del figlio stesso, che quindi decide un istituto piuttosto che un altro seguendo un’immagine di sé talvolta distante dalla realtà effettiva.

Rispetto a tale problematica il laboratorio ha avuto esiti parzialmente positivi: le relazioni educative scuola–famiglie–alunni devono avere tempi e modalità che investano tutto il triennio, cosicché il percorso di conoscenza di abilità, fragilità e desideri del figlio sia approfondito e maturato nel tempo. Ma questa è una dimensione che ancora non è penetrata nella secondaria di primo grado e si continua ad investire ogni tentativo orientante in un paio di mesi all’ultimo anno.

 

In ogni caso, il percorso svolto ha avuto due esiti sicuramente positivi. Per prima cosa, ha attivato una riflessione sul mondo del lavoro secondo criteri di analisi diversi da quelli soliti. In secondo luogo, ha incrementato una riflessione personale sulle motivazioni che muovevano i ragazzi verso una certa scelta.

Iniziare un dialogo fra i ragazzi e le famiglie sul significato e lo scopo dell’esperienza lavorativa da loro vissuta: questo è stato forse l’aspetto che più ha appassionato i miei alunni e che ha interrogato e messo a nudo i genitori. Forse perché ciò che davvero aiuta, nei grandi snodi dell’esistenza, è sempre e soltanto un rapporto vero, teso a scoprire qualcosa di significativo; qualcosa che segni la strada anche per l’altro che ascolta. E i ragazzi han bisogno di questo. Innanzitutto.

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