Il mondo pagano dei secoli immediatamente precedenti il cristianesimo, concepiva in modo sostanzialmente negativo il lavoro manuale. Cosa è accaduto con l’avvento del cristianesimo per passare da idea di lavoro come attività degli schiavi ad un impegno di uomini liberi? Per opera di chi? E come?
Due parole troviamo all’origine della tesi che cercheró di dimostrare: si tratta dei vocaboli latini TRIPALIUM e LABOR con le loro modificazioni grafiche e semantiche.
La maggior parte degli specialisti della fine dell’etá antica e degli inizi del Medio Evo concorda nell’affermare che le parole neolatine trabajo (spagnolo), travail (francese), travaglio (italiano), trabahlo (portoghese) hanno la loro radice in una stessa parola latina: tripalium, la cui origine etimologica piú probabile é di tre pali. Si tratterebbe di tre pali fissi nel terreno (a formare una piccola piramide) dove veniva legato lo schiavo che si castigava con frustate, come conseguenza di alcuni errori nel lavoro o per semplice capriccio del guardiano o signore. Un’altra interpretazione, meno frequente e accreditata, traduce tripalium con tre palline: si tratterebbe delle palline di piombo con cui finiva la frusta. In ogni caso si tratta di uno strumento legato al castigo fisico e alla tortura. Una chiara traccia di questa idea di sofferenza la troviamo ancora nella parola italiana travaglio che – a differenza delle altre lingue neolatine citate in cui la parola tripalium viene tradotta con termini che significano lavoro – indica esplicitamente sofferenza, dolore (si usa infatti, ad esempio, per indicare i dolori del parto).
La stessa cosa si può affermare rispetto alla parola latina labor. Tutti gli studenti di liceo imparano, fin dalle prime traduzioni dal latino, che se trovano il sostantivo labor lo devono tradurre con fatica o sforzo. Lo spagnolo conserva meglio l’idea originale di sforzo (inoltre la grafia della parola é identica, con solo una differenza di accento tonico: dal lábor latino a labór spagnolo). A sua volta nel francese la radice é rimasta, soprattutto nel verbo labourer (che possiamo tradurre con arare), mentre in italiano si é cristallizzata nel sostantivo lavoro. Infine, in spagnolo, come in francese, vi é il verbo labrar, che indica l’aratura dei campi, mantenendo così il nesso con l’idea di un lavoro faticoso. Queste semplici note etimologiche dovrebbero essere sufficienti per mostrare come le parole che indicano il lavoro hanno nella loro origine latina un significato negativo, molto diverso da quello che assumono nelle lingue neolatine. Ritengo, però, che, affinché la mia tesi risulti più chiara, possa essere utile fissare un momento la nostra attenzione su un’altra parola latina il cui significato è radicalmente cambiato nel passaggio alle lingue moderne: si tratta del vocabolo OTIUM.
Negli autori del latino classico, la parola otium, accompagnata per esempio dal genitivo litterarum, indica prevalentemente ciò che noi chiameremmo lettura o studio. In generale penso che potremmo attribuire alla parola otium il significato di “tempo libero da occupazioni pubbliche o economiche e perciò dedicato alla cura dei propri interessi culturali o allo svago”. Risulta subito evidente la differenza di senso rispetto al temine italiano ozio, che é quello che etimologicamente deriva da otium latino.
Non é evidentemente questo il luogo per fare un discorso approfondito sul concetto di lavoro nel mondo ellenistico, però mi sembra indiscutibile il fatto che il mondo pagano dei secoli immediatamente precedenti il cristianesimo, concepiva in modo sostanzialmente negativo il lavoro manuale e lo sforzo fisico legato ad attività più umili. Per documentare questa affermazione credo possa essere sufficiente citare il famoso passaggio del De Officiis di Cicerone, da molti considerato un “umanista” della sua epoca. Egli, parlando del lavoro dell’artigiano e in generale del lavoro manuale, scrive: “Opifices omnes in sordida arte versantur, nec enim quidam ingenuum potest habere officina”, che potremmo tradurre “tutti gli artigiani o lavoratori manuali svolgono attività degne di disprezzo perché in una officina non vi é nulla di nobile”1. Per brevità farei notare solo la contrapposizione degli aggettivi sordidus e ingenuus che potremmo anche tradurre, per rendere più chiara l’idea, con sozzo e onesto. Allo stesso modo, mi sembra si possa affermare con certezza che sul finire del Medioevo possiamo trovare che le parole relative al lavoro conservano il significato di fatica, stanchezza, sforzo, ma hanno perso il significato moralmente negativo tipico degli ultimi secoli dell’era pagana. La ragion d’essere del presente articolo é propriamente quella di cercare di documentare la trasformazione del concetto di lavoro dall’antichità classica al mondo medievale operata grazie all’influsso del cristianesimo. Per quanto riguarda il cristianesimo limiterò il campo d’indagine soprattutto agli scritti e alle esperienze monastiche a partire dal secolo III d.C.
Le origini del nuovo significato del lavoro.
A partire dalle più antiche Costituzioni Apostoliche2, fino a raggiungere quelle di San Domenico o San Bruno, due sono, soprattutto, i riferimenti biblici che ritornano con maggiore frequenza per fondare la necessità e la dignità del lavoro manuale: innanzitutto il riferimento agli anni della vita di Gesù dedicati al lavoro di falegname nell’officina di San Giuseppe3, poi l’esempio degli apostoli ed in particolare di San Paolo4. A questi antecedenti scritturistici si potrebbe aggiungere una terza fonte: l’intera tradizione del popolo ebreo e l’Antico Testamento che fin dal libro del Genesi fa riferimento alla necessità del lavoro per dominare la terra5. Va solo fatto notare che alcuni studiosi hanno osservato che la mentalità ebrea veterotestamentaria propone una marcata differenza tra l’agricoltura (vista prevalentemente in modo negativo, quasi una condanna) e la pastorizia (vista più positivamente). In secondo luogo non si deve dimenticare che é attraverso il Nuovo Testamento che il popolo cristiano dei primi secoli recupererà tutta la tradizione del popolo ebreo.
Il lavoro nelle prime esperienze monastiche
Una delle fonti più antiche si trova negli scritti di Sant’ Atanasio nel passo in cui descrive la vita e l’attività di Sant’ Antonio. Quest’ultimo, visse tra il secoli terzo e quarto dell’epoca cristiana e la tradizione gli attribuisce una vita lunghissima (251-356). S. Atanasio, grande difensore della fede nella lotta contro l’arianesimo, perseguito dai suoi nemici e dalle stesse forze imperiali, si poté salvare rifugiandosi nelle grotte abitate dai seguaci di S. Antonio che gli offrì amicizia e aiuto (alla sua morte gli lasciò in eredità “tutti i suoi beni”). Fu grazie a queste circostanze che S. Atanasio poté osservare da vicino e più tardi raccontare l’attività di questo gruppo di monaci sui generis. I principali testi di riferimento, per il tema che ci interessa, sono la “Vita sancti Antonii” e i “Principia”. Nella “Vita Sancti Antonii” Atanasio racconta un episodio, riferitogli dallo stesso Sant’Antonio, che risulta decisivo per comprendere l’importanza che riveste il lavoro nella sua esperienza. Un giorno, mentre Antonio lavorava coltivando un piccolo orto e tessendo stuoie, gli apparve il diavolo che lo tentò dicendogli che non era un vero monaco perchè non sapeva vivere in forma ininterrotta la preghiera e la meditazione… fu così che S.Antonio sentì la forte tentazione di sfiducia in se stesso e abbattimento, fino al punto di pensare di abbandonare tutto e ritornare in città. D’improvviso, però gli apparve un angelo che tesseva stuoie e pregava a intervalli regolari e gli disse: “Fai lo stesso che vedi fare a me”. Questo fatto gli fece capire che doveva semplicemente alternare il lavoro e la preghiera. Nella stessa opera, al numero 634, la versione latina dice “Laborabat itaque manibus suis: audierat nempe: ‘qui otiosus fuerit non manducet’, atque partis panis sibi emebat, partis egenis largiebat”6. Il testo greco presenta la frase: eirgazeto tais kersine il latino traduce fedelmente laborabat manibus suis, risulta con assoluta evidenza la continuità del lavoro (documentata dall’imperfetto latino) e il tipo di lavoro: manuale (kersin = manibus = con le mani). Un poco oltre, Atanasio riferisce il fatto che intorno a Sant’Antonio si è riunito un gruppo di giovani che desiderano seguire la sua “avventura” e al numero 662 descrive il loro stile di vita: “Erant igitur in montibus monasteria lectionis studiosorum, jejunantium, orantium, exultantium spe futurarum, laborantium ad elemosinas erogandas mutua charitate et concordia junctorum”7. Troviamo qui di nuovo il lavoro fisico (laborantium) come un elemento fondamentale della vita del “monastero”, insieme alla preghiera e al digiuno.
Anche nell’altra opera citata di Sant’Atanasio, sempre riferita a Sant’Antonio, si parla del lavoro manuale. I “Principia” sono la trascrizione dei consigli fondamentali che Sant’Antonio dà a coloro che vogliono seguire la sua strada e al numero 50 dice che il monaco ha l’obbligo di “ex manibus suis vivere”, cioè di mantenersi grazie al lavoro delle sue mani. Ora, prima di passare all’analisi di altri testi è opportuno fissare la nostra attenzione su un elemento, contenuto nei frammenti citati, comune a tutta l’esperienza monastica fin dalle origini. Il lettore avrà sicuramente osservato che nel testo riportato la necessità del lavoro è messa in rapporto con l’elemosina. Ritorniamo al punto. Il primo documento parla del solo Sant’Antonio e dice che parte del frutto del suo lavoro lo utilizzava per la propria alimentazione e parte per aiutare gli indigenti. Nel secondo si parla già di una comunità monastica (monasteria) e si giunge al punto di identificare la ragione stessa del lavoro con la necessità di fare elemosina (laborantium ad elemosinas erogandas).
Il fatto è interessante ed ha innegabili conseguenze sulla concezione stessa del lavoro. La vita dei monaci del deserto, infatti, è famosa per la loro austerità; la dieta giornaliera a volte consisteva in un pane, un poco di verdura amara, miele silvestre e poco più. Risulta quindi chiaro che se il lavoro fosse solo per la sussistenza sarebbe bastata l’attività fisica del 20% (se vogliamo esagerare) dei monaci e gli altri avrebbero potuto dedicarsi totalmente alla preghiera e alla contemplazione (oppure si potrebbe fare analogo discorso e proporzione peri i tempi di ciascun monaco). Non fu però così, in primo luogo perchè il monaco non si concepiva individualisticamente: prega, digiuna e lavora in solitudine, però compie tutto ciò per il bene della chiesa intera; in secondo luogo il lavoro ha, all’interno della regola, un valore educativo. In conseguenza di questo costante impegno lavorativo l’abbondanza di beni prodotta dai monaci di Sant’Antonio e San Pacomio fu tale e di tanta importanza che in certi momenti di carestia poterono salvare paesi interi8. Vi è una seconda figura importante per comprendere il significato del lavoro nelle prime esperienze monastiche: si tratta di San Pacomio, appena citato.
Originario della Tebaide, visse tra il 292 e il 348 e fu artefice di un impressionante “fenomeno di massa”; è sufficiente osservare che alla sua morte erano circa 3.000 monaci nei 9 monasteri da lui fondati. Fu un ottimo organizzatore, le sue regole costituiscono i primi tentativi di una vita “cenobitica”; nei suoi monasteri, che avevano la forma di piccoli paesi, si svolgevano diverse attività lavorative e i monaci vivevano in gruppi e case secondo la professione: tessitori, falegnami, calzolai, cuochi, infermieri, agricoltori ecc… Uno dei principi della sua Regola, frutto della rivelazione di un angelo, e che mi sembra un interessante esempio di realismo e senso pratico, è il seguente: “Lascerai che ciascuno mangi e beva secondo le sue forze e gli darai un lavoro ad esse proporzionato. Non proibirai a nessuno di mangiare o bere, però fai in modo che coloro che più mangiano ed hanno maggior forza, svolgano i lavori più pesanti.” Circa l’obbligo del lavoro manuale non fa giri di parole, solo segnala ai suoi monaci che “vi sono per noi ordini nelle sante scritture” e sottolinea (confermando la tesi poc’anzi sostenuta) che il lavoro “deve permetterci di sostenere con le nostre mani i poveri”. Finalmente, per documentare l’importanza e le dimensioni orarie del lavoro manuale possiamo citare un passo dell’opera ben documentata di García M. Colombas che, riferendosi ai primi monaci commenta: “All’alba iniziavano il lavoro manuale, che normalmente interrompevano a mezzogiorno per permettersi un breve riposo… poi verso le tre del pomeriggio consumavano l’unico pasto del giorno”9. Può essere utile ricordare che si sta parlando dei territori orientali dell’impero romano (Egitto, Siria…) e che l’alba in estate significa tra le 5 e le 6 del mattino e in inverno tra le 7 e le 8… ciò significa che il lavoro manuale occupava almeno 7 ore al giorno. In un altro passaggio della sua opera elenca i lavori e può essere utile citarlo perchè conferma quanto fin qui ho cercato di documentare: “Le occupazioni più comuni e preferite dei solitari copti erano: confezione di cesti, corde, stuoie tessute con giunchi e foglie di palma; molti aiutavano i contadini nel raccolto a cambio di una certa quantità di grano necessario per la loro sussistenza e per fare elemosina ai poveri”. Vale la pena soffermarsi sulla parola “preferite”.
Perché i monaci preferivano questi lavori? Credo sostanzialmente per due ragioni, allo stesso tempo pratiche e spirituali. Un motivo dipende dall’esigenza di solitudine, silenzio, allontanamento dai rumori e dalle preoccupazioni della vita cittadina; per questo lavoravano con il materiale che si può incontrare nel deserto, si tratta di risorse semplici e di facile trasformazione: giunchi e foglie di palma. L’altra ragione consiste nella facilità e meccanicità di questo tipo di lavoro che permette una contemporanea concentrazione nella preghiera e meditazione. Tutto ciò è confermato da Cassiano che nella sua opera “Istituta” afferma: “Si dedicano senza tregua al lavoro manuale, ciascuno nella sua cella, senza che la recita dei salmi o delle altre parti della scrittura cessi del tutto”10; la stessa costatazione fa García M. Colombas laddove scrive: “Il principale sforzo per pregare sempre consisteva nell’unire la preghiera e il lavoro”11.
È importante osservare che abbiamo già assistito, quasi impercettibilmente, a una trasformazione notevole di mentalità: il lavoro manuale più umile, semplice, ripetitivo è preferito per la sua adattabilità alla necessità della memoria dei “mirabilia Dei”. Nove secoli dopo, San Bernardo di Chiaravalle confermerà questa esperienza originale quando, nella piena maturità, assalito dai molteplici impegni e obblighi pubblici, ricorderà ai suoi discepoli con una certa nostalgia i tempi del suo noviziato nei quali la memoria era aiutata dagli umili lavori del campo12. Infine, per concludere questo primo approccio al tema, possiamo sottolineare che quanto fin qui detto si può applicare anche ai monasteri femminili. Esiste, infatti, documentazione relativa ai monasteri femminili della Siria in cui si sottolinea che le principali attività delle monache erano la tessitura, la filatura e l’assistenza ai malati.
San Basilio
Nel secolo IV le importanti novità relative ai rapporti chiesa –impero determinarono un nuovo modo di concepire e affrontare il tema del lavoro. L’editto di Milano del 313 e soprattutto la costituzione del 321 ad opera di Costantino, costituirono, com’è noto, un deciso riconoscimento giuridico e politico per la chiesa. Tener conto di questi avvenimenti è necessario per comprendere pienamente alcune delle affermazioni di San Basilio che ci apprestiamo ad analizzare.
Nato in Cesarea, nel 329, visse fino al 379 e fu uno dei vescovi più importanti della sua epoca e di tutta la patristica greca; le sue Regole costituiscono, secondo l’unanime giudizio degli storici della chiesa, la base e il punto di riferimento di tutte le regole monastiche occidentali successive. Di tutta la sua vasta produzione ho scelto solo due testi perché, nella loro semplicità e apparente insignificanza, mi pare ci permettano di osservare qualcosa di molto interessante in riferimento al tema di cui ci stiamo occupando. La prima citazione si riferisce al “Sermo de ascetica disciplina”; qui, al numero 212 insiste sul fatto che i monaci devono “lavorare con le mani”. È significativo che non venga utilizzato il verbo ergazomai (che già abbiamo trovato e il cui significato è genericamente operare) , ma piuttosto il verbo kopiao che introduce l’idea del faticare e poi aggiunge, come nei testi già analizzati tais kersin (con le mani). Questo verbo è relazionato al lavoro agricolo, attività che Basilio preferisce nel caso dei suoi monaci e lo dice espressamente in molte occasioni. Quali sono le ragioni di questa preferenza? Direi sostanzialmente due: una di carattere educativo e l’altra politico. Il cambiamento della situazione giuridica della chiesa nell’era costantiniana implica anche una diversa situazione economica: le diocesi e i monasteri possiedono ora beni la cui proprietà è riconosciuta e a volte si tratta di realtà significative (in alcuni casi si tratta di restituzioni di proprietà confiscate ai tempi delle persecuzioni, in altri di recenti donazioni di benefattori o dello stesso imperatore). Non è difficile pensare che i monaci comincino a paventare l’ipotesi che le rendite di questi beni possano permettere loro di vivere degnamente senza la necessità di ricorrere a lavori faticosi (come all’epoca erano i lavori dei campi). Per questo, suppongo, Basilio ricorda ai suoi monaci che la fatica del lavoro manuale ha in primo luogo il significato di “disciplina ascetica”, cioè riveste un valore educativo fondamentale nel cammino di santità del monaco. Il motivo politico, invece lo riassumerei con la parola “autonomia” nelle sue diverse sfumature. In un primo significato: autonomia come possibilità di vivere isolati dalla città con le sue distrazioni e preoccupazioni mondane (si tratta di un elemento comune e ricorrente in tutte le esperienze monastiche); in questo senso le proprietà agricole, che ora i monasteri possiedono a pieno titolo, permettono di lavorare senza allontanarsi dal luogo di preghiera e contemplazione. In secondo luogo (e questa è a mio giudizio una interessante novità) autonomia come “autarchia”, “autosufficienza”. In altre parole: se il monastero può vivere senza aver bisogno di ricorrere alla generosità dell’imperatore o del vescovo di turno è meglio; infatti non si sa mai come sarà il nuovo imperatore o se non verrà un vescovo eretico o scismatico. Quindi nulla di meglio che non essere obbligati a dipendere da loro per la sopravvivenza… e quale miglior strumento, a tale scopo, che una buona organizzazione agricola del monastero!
La seconda citazione è molto semplice e si riferisce alle “Regulae brevius tractatae”13: (domanda)” Come si devono trattare gli utensili del lavoro?”. (risposta) “In primo luogo come gli oggetti dedicati e consacrati a Dio”. In altre parole, gli utensili del lavoro quotidiano hanno lo stesso valore e dignità che gli oggetti dell’altare, e questa identità dice della dignità che il lavoro manuale ha per S.Basilio molto di più che un lungo discorso.
Sant’Agostino
Vi è un opera di Sant’Agostino particolarmente interessante per il nostro lavoro: il “De Opere Monachorum”. Si tratta di un piccolo trattato nel quale Agostino risponde alle lamentele di alcuni dei suoi monaci che protestano per i lavori manuali e cercano di trovare giustificazioni, per evitare la fatica dei lavori quotidiani, nella stessa sacra scrittura. Ad esempio, fanno riferimento al passaggio evangelico in cui Gesù parla degli uccelli e dei gigli del campo che non si preoccupano del futuro e Dio somministra loro lo stesso il necessario per vivere. Sant’Agostino risponde, a volte in tono serio, altre con una sottile ironia degna del gran retore che è. Una sola generazione separa Sant’Agostino e San Basilio (alla morte del secondo il primo aveva 25 anni) però i problemi che incontra il vescovo di Ippona sono in parte nuovi ed è diverso anche il contesto geografico in cui si muove (il nord’Africa della fine del secolo IV ed inizio del V). In particolare mi sembrano significativi due capitoli del De Opere Monachorum: il XIII e il XXI. Nel primo parla di San Paolo e scrive: “L’apostolo produceva ‘innocentemente’ e ‘onestamente’ oggetti utili per la gente, come sono i prodotti dei falegnami, dei muratori, dei sarti, degli agricoltori… ed altri; tali lavori non sono contrari alla decenza (honestas), bensì alla superbia di coloro che si fanno chiamare decenti senza però impegnarsi ad esserlo realmente”14. Poi, concludendo lo stesso capitolo esalta la figura di San Giuseppe e del suo umile lavoro di falegname. Il capitolo XXI, invece, si riferisce esplicitamente ai monaci che non vogliono realizzare lavori manuali e dice: “Se loro, quando vivevano ‘nel secolo’ avevano di che mantenersi senza lavorare e al convertirsi dettero tutti i loro beni ai poveri, dobbiamo credere alla loro debolezza fisica (eorum infirmitas) e tollerarla. Infatti gli appartenenti a queste classi sociali (nobili e ricchi) sono soliti ricevere una educazione, non migliore come molti pensano, ma piuttosto,e in verità, più effeminata (languidius educati); così da non poter tollerare la fatica dei lavori corporali”15.
I testi citati hanno, palesemente, perlomeno due grandi obiettivi polemici: i manichei e la mentalità dell’aristocrazia pagana di fine impero. H.Jedin, così riassume la posizione dei seguaci di Mani: “Il perfetto manicheo… si astiene dalle parole e piaceri impuri e ripudia ogni lavoro servile, infatti questi attentano contro il mondo della luce… pratica la continenza assoluta e condanna il matrimonio” e acutamente aggiunge: “Queste alte esigenze dell’etica manichea non furono realizzate nella pratica. Ciò condusse a dividere i fedeli manichei in eletti e uditori (electi e audientes)… Gli uditori o catecumeni servivano gli eletti, procuravano loro cibo e vestiti e così speravano, un giorno, di rinascere nel corpo di un eletto e raggiungere finalmente la salvezza”16. Sant’Agostino, com’è noto frequentò i manichei durante circa un decennio, perciò conosce molto bene questa religione, con i suoi pericoli e ipocrisie, per questo si preoccupa se i suoi monaci definiscono “non decente” (cap. XIII) il lavoro fisico. La polemica con i manichei è senza dubbio un elemento importante nella trasformazione del concetto di lavoro ad opera del cristianesimo. Sant’Agostino è qui costretto a chiarire che le ragioni che rendono onesto e decente un lavoro o piuttosto degno di disprezzo, non c’entrano nulla con il fatto che un lavoro sia umile e fisicamente pesante: non sono la polvere, il fango o la calce a rendere ‘sozzo’ un uomo, piuttosto egli viene ‘insudiciato’, ‘macchiato’ dall’orgoglio di coloro che pensano di salvarsi con le proprie forme e forze. Pensiamo, solo per un attimo, alla distanza che separa qui Sant’ Agostino dal Cicerone che pure tanto ammirava!
Il secondo obiettivo polemico (cap. XXI) è l’idea di educazione che aveva l’aristocrazia pagana della sua epoca. Qui è divertente osservare la sottile ironia di un uomo che possiede perfettamente la sua lingua e conosce bene le idiosincrasie della sua gente. I nord’africani dell’epoca erano noti per essere orgogliosi della loro virilità, allora S.Agostino provoca i suoi monaci facendo loro capire che se non vogliono lavorare è forse perchè sono ‘malati’ ‘debolucci’ (infirmitas), come a dire che non sono ‘veri uomini’ e questo in ragione di una educazione ‘effeminata’. Penso che il grande vescovo e retore volesse provocare una scossa, una certa scomodità in coloro che stavano cercando di giustificare l’astensione dai lavori manuali. È comunque importante osservare che il lavoro fisico, considerato vergognoso per il ‘vero uomo’ delle classi pagane elevate è diventato invece per il vescovo di Ippona un fattore distintivo del vero uomo.
San Benedetto e i suoi seguaci
La lunga storia che con lui ha inizio, la storia di un movimento che ha avuto un’influenza enorme sulla civiltà occidentale, ha le sue radici nelle poche pagine di una regola che l’autore stesso definisce “per principianti” e il suo successo straordinario è dovuto probabilmente al realismo umile e intelligente che la caratterizza. Il sociologo e storico belga L.Moulin ha riassunto efficacemente l’importanza del lavoro per San Benedetto: “Il lavoro manuale, intellettuale, artistico o artigianale è l’elemento essenziale dell’identità monastica. Perchè lavorare? In ragione della propria condizione di povertà; per aiutare i poveri (Regola IV,17); per evitare l’ozio (R. XLVIII,1); per il servizio alla comunità e agli ospiti (R. LII,2); per far fruttificare in ogni circostanza i doni che Dio ha posto in noi (LVII,4); per seguire l’insegnamento di San Paolo”17. Come possiamo vedere, troviamo qui tutti i temi già trattati, perciò mi sembra utile fermarmi un momento solo su un capitolo che conferma la tesi centrale e ci permette di fare alcune osservazioni nuove (naturalmente non in senso assoluto, bensì rispetto a quanto fin qui argomentato nel presente lavoro). Si tratta del capitolo XLVIII: “Del lavoro manuale di ogni giorno”, dove leggiamo: “L’ozio è nemico dell’anima; per questo i fratelli devono occuparsi durante alcune ore con il lavoro manuale e in altre con la lectio divina. Se le circostanze del luogo o la povertà esigono che loro stessi debbano lavorare nel raccolto, non si amareggino, perchè precisamente così sono veri monaci, quando vivono del lavoro delle proprie mani, come i nostri padri e gli apostoli”18. È inevitabile osservare che la trasformazione del concetto di lavoro si è definitivamente realizzata: ciò che era negativo per la fine dell’epoca antica (labores manuum) è diventato positivo (quia tunc vere monachi sunt) e ciò che era considerato il meglio (otiositas) si è trasformato in grave pericolo (inimica est animae). Tuttavia, en passant, vale la pena sottolineare che, evidentemente, ai discepoli di San Benedetto non entusiasmava il lavoro agricolo e diventavano tristi (contristetur) quando dovevano occuparsi del raccolto; ma ciò che è veramente interessante è che questo non impedì lo sviluppo dell’agricoltura, anzi, tutti i grandi storici del medioevo riconoscono che “i monaci benedettini furono gli agricoltori d’Europa”19. In questo contesto è d’obbligo sottolineare la riforma cistercense e la figura di San Bernardo che nel secolo XII contribuì a una forte riscoperta del lavoro manuale, recuperando, dopo un certo periodo di crisi, le origini dello spirito benedettino. L’agricoltura è solo uno degli aspetti in cui si può apprezzare l’influenza dell’esperienza monastica rispetto al mondo del lavoro; tutto l’impressionante e ancora poco conosciuto sviluppo tecnologico medievale ha le sue principali sorgenti nell’ambiente monastico… ma lo stesso si può dire di molti aspetti della vita quotidiana privata e pubblica, dalle tecniche elettorali fino al modo di stare a tavola.20 Si potrebbe insistere a lungo su questo punto, non si può dimenticare, ad esempio, l’arte romanica e gotica in cui è espressa con forza la nuova concezione cristiana del lavoro; non mi sembra però necessario approfondire questo aspetto, credo, infatti, che la concezione cristiana del lavoro rimase sostanzialmente omogenea da San Benedetto fino almeno a tutto il secolo XIV. Mi limito, pertanto, a citare un passaggio di San Domenico di Guzmán che, sette secoli dopo S.Benedetto, ripete i suoi stessi consigli. Così, quando il fondatore dei domenicani parla nelle costituzioni per le monache, riassumendo tutti gli argomenti a favore del lavoro analizzati nel nostro scritto, dice : “Poi, visto che l’ozio è nemico dell’anima e in più padre e alimento di tutti i vizi, nessuna monaca nel convento rimanga senza far nulla, ma sempre, se è possibile, faccia qualcosa, affinché non cada in tentazione facilmente colei che non si mantiene in buona attività. Infatti, il creatore ordinò all’uomo che si guadagnasse il pane con il sudore della fronte…, e l’apostolo disse: ‘Chi non vuol lavorare che nemmeno mangi’; e il profeta: ‘mangerai del lavoro delle tue mani’. Per questo, ad eccezione delle ore dedicate alla preghiera, alla lettura e in generale al culto divino, canto o studio che sia, nelle altre ore le monache devono lavorare con le mani, tutte e con attenzione.”21 Occorre sottolineare, concludendo, due punti. Il primo si riferisce al lavoro manuale: esso è definito, allo stesso modo della preghiera, ancora una volta come un buon esercizio (esercitio bono). Il secondo si trova nelle espressioni latine: “omnes, attente, insistant” sottolineando il fatto che non ci siano eccezioni (omnes), che il lavoro sia svolto con cura (attente) e che vi sia continuità (insistant). Si tratta di ciò che il già citato Moulin ha definito “puntualità e attenzione totale”, principi che, a suo giudizio, costituiscono elementi tipici della concezione attuale del lavoro e che il mondo contemporaneo deve, anche se lo ha dimenticato, alle esperienze monastiche che abbiamo ricordato.22
(Gian Luca Bolis)
Le note sono pubblicate nella pagina seguente
1 M.T.Cicerone, De Officiis I, 42
2 Didaké 12,2-5. Tertulliano, Apologeticum 41. Clemente Alessandrino, Paideia 3.11; Didaskalon, 2,3,4
3 Mc: 6.3.
4 San Paolo: 2 Tes. 3,7-13
5 Genesi: 1,28.
6 Lavorava con le sue mani, perchè ricordava il comandamento: “Chi non lavora che neppure mangi” e del ricavato una parte la utilizzava per la propria alimentazione, e una parte la dava ai poveri”. (Vita Sancti Antonii, 634)
7 C’erano nei monti alcuni monasteri abitati da gente che studiava le scritture, digiunava, pregava, si rallegrava nella speranza dei beni promessi, lavorava per fare elemosina ed era unita da una reciproca carità e concordia (Vita Sancti Antonii, 662)
8 Cfr: Emile Chenon, El papel social de la Iglesia; Jus, Mexico 1946.
9 García m. Colombás, El Monacato Primitivo, pag. 77; B.A.C. Madrid.
10 Cassiano, Istituta 3.2.
11 García m, Colombás, El Mon. Pag. 78
12 Cfr: J. Leclerq, San Bernardo: monje y profeta B.A.C. Madrid
13 San Basilio, Regulae Brevius Tractatae, 464.
14 Il testo latino dice: “…neque enim honestas ipsa reprehendit quod reprehendit superbia qui honesti vocari amant, sed ese non amant”.
15 texto latino dice: “Eorum infirmitas…non melius sed, quod est verum, languidius educatis”.
16 H. Jedin, Historia de la Iglesia I, pag. 390.
17 Leo Moulin, Monachesimo e Tecnologia; Viella, Roma 1992. Si veda anche, dello stesso autore: La vita quotidiana secondo San Benedetto; Jaca Book, Milano 1980.
18 Il testo latino dice: “Otiositas inimica est animae et ideo ceteris temporibus occupari debent fratres in labores manuum, ceteris iterum horis in lectione divina… si autem paupertas exigerit ut ad fruges recollegendas per se occupantur, non contristetur, quia tunc vere monachi sunt, si labore manuum suorum vivunt, sicut et Padres nostri et Apostoli”
19 È importante a questo proposito la conferenza di J.H. Newman: “Il messaggio di san Benedetto”, in cui cita i giudizi unanimi, a questo proposito, dei maggiori storici del secolo scorso. Cfr: Newman, Oursel, Moulin: La civilización de los Monasterios medievales; Encuentro, Madrid.
20 Cfr: J.Gimpel, La revolución industrielle au moyen age; parís 1969. Oppure: AAVV, Le travail au moyen age, Louvain-La Neuve 1990. Ed anche: L.Molin La vie cotidienne des religeux au moyen age, Hachette, Paris.
21 San Domenico, Costituzioni delle monache cap XVIII “Del lavoro e dell’ufficio divino”. Il testo latino dice: “iterum quia otiositas inimica est animae, nec non mater et nutrix est vitiorum, nulla in claustro maneat otiosa, sed semper, si poterit, aliquis operis faciat; quia non de facili a temptatione capitur, qui exercitio bono vacat. A Domino enim dictum est homini quod sudore vultus sui vesci debeat pane suo. Et Apostoli dicit: ‘Qui operari noluerit non manducet’. Et Pfopheta: ‘Labores manuum tuarum manducabis; quia beatus es et bene tibi erit’. Ideo, exptis illis horis quibus orationi, lectioni, vel provisioni divini officii, seu cantus seu eruditionis litterarum debent intendere, operibus manuum omnes attente insistant”.
22 L.Moulin, Monachesimo e tecnologia, op.cit.