Scuola e lavoro vengono talvolta rappresentanti come due mondi paralleli. Se poi si parla dei Licei, pare che la mancanza di comunicazione e l’indifferenza del sistema scolastico verso la formazione al lavoro non possano che aggravarsi irrimediabilmente. Ma è davvero così? Marco Nardone, formatore e consulente scolastico, membro di organi di rappresentanza regionale e nazionale di associazioni professionali di docenti, dirigenti scolastici e gestori di scuole, già dirigente e amministratore scolastico con vasta esperienza nei Licei, racconta un’esperienza che va in direzione opposta, portata avanti per diversi anni con le classi quarte di un Liceo Classico e di uno Scientifico.



Scuola e lavoro: due estranei?

Nel corso delle attività di orientamento ci siamo imbattuti più volte in una sorta di incomunicabilità tra la formazione liceale e la formazione al lavoro. In particolare, mi aveva colpito il giudizio dei rappresentanti della formazione del mondo del lavoro che invitavamo nella nostra scuola. Essi spesso si rivolgevano ai ragazzi dicendo loro che, una volta entrati nel mondo del lavoro, avrebbero dovuto “mettere da parte” quanto appreso a scuola e acquisire tutt’altro tipo di competenze. E i ragazzi non obiettavano: in fondo, vivevano questa estraneità.



Siamo quindi partiti da questa domanda: che cosa vuol dire educare attraverso il lavoro per un Liceo, per una scuola cioè che non prepara ad alcuna professione? Per rispondere ci siamo proposti di studiare un progetto di alternanza scuola-lavoro e di verificare un’ipotesi: il lavoro non è solo e innanzitutto un “fare” che ha il suo fine fuori di sé, ma un “agire” che immischia lo spirito in vista della pienezza della persona.

Una sinergia che ha al centro la persona

L’elemento qualificante del progetto diventava quindi l’esperienza del lavoro proposta innanzitutto nel suo aspetto soggettivo, cioè come significativa esperienza di vita. Si trattava di fare in modo che i ragazzi incontrassero nel mondo del lavoro persone capaci di testimoniare una “riuscita umana”, cioè di mostrare che il loro lavoro non ha ostacolato ma favorito lo sviluppo di tutte le dimensioni dell’esistenza umana. Se la cosa fosse riuscita, essi sarebbero stati richiamati non solo a considerare il lavoro secondo una prospettiva che oggi risulta decisiva per le aziende, ma a riflettere, nello stesso tempo, sul motivo di fondo che anima tutta la formazione liceale. Avrebbero potuto quindi superare l’estraneità non a prescindere dalla loro esperienza di scuola, ma proprio grazie ad essa, e rimotivarsi allo studio. Quest’ultimo aspetto, per nulla secondario, avrebbe consentito al progetto di non sovrapporsi al curricolo ma di coinvolgerlo dall’interno e di sostenere il lavoro degli insegnanti invece di affiancarlo a titolo di attività “concorrente”.



Per quanto riguarda le tematiche e gli ambiti, l’iniziativa preferibilmente (trattandosi di un Liceo) avrebbe insistito sui settori imprenditoriali in cui più forte è l’esigenza di figure dirigenziali, di responsabili, di professionisti. Tuttavia – o proprio per questo – non avrebbe mirato tanto ad una specifica professionalizzazione, quanto a una verifica pratica delle basi culturali e dei princìpi sui quali si costruisce il curricolo liceale. Ciò al fine di rendere visibile il rapporto con la realtà dei princìpi studiati e favorire nei giovani un pre-interesse per il lavoro di tipo esistenziale, culturale, umanistico, etico e orientato al bene comune. Un interesse che ben si adatta, per chiudere il cerchio, alle qualità di cultura e apertura mentale richieste oggi dal mondo del lavoro, e perciò anzitutto a un dirigente, a un responsabile, a un professionista.

Dai banchi ai posti di lavoro, e ritorno

Il progetto così impostato prevedeva tre momenti caratterizzanti:

1) L’incontro con testimoni significativi del mondo del lavoro, cioè con personalità in grado di offrire umanità oltre che professionalità: figure motivanti di imprenditori-educatori. Gli incontri avvenivano in parte nei locali della scuola ma soprattutto sul territorio, in modo che i ragazzi potessero calarsi nei diversi ambienti di lavoro. Le personalità incontrate dai ragazzi non erano soltanto imprenditori o dirigenti ma anche quadri, impiegati e operai.

2) Questi incontri, che si concentravano in una settimana intensiva in aprile, erano preparati e supportati da attività formative svolte dagli insegnanti durante il secondo quadrimestre. Esse miravano a preparare e a rinforzare l’esperienza fatta dai ragazzi, connettendola adeguatamente col momento cognitivo e critico. Le attività formative consistevano in un lavoro interdisciplinare che non si sovrapponeva alla programmazione ordinaria, bensì entrava a far parte di essa. Si mirava quindi a declinare i contenuti dei vari programmi disciplinari secondo le Linee applicative del progetto educativo (un documento interno della scuola che indicava gli orizzonti formativi) e seguendo una tematica “motrice” e trasversale individuata ogni anno in base alle caratteristiche della classe.

 Tale tematica “motrice” costituiva il ponte formativo tra l’esperienza fatta sul territorio e le attività scolastiche: era infatti declinata tanto negli incontri con i testimoni (ai quali chiedevamo di esemplificarla a partire dal loro campo e dal loro vissuto, come sembrava loro opportuno) quanto nell’insegnamento in classe, anche attraverso la consegna di appositi compiti. Uno di questi era la restituzione dell’esperienza vissuta: alla fine dell’anno i ragazzi divisi in gruppi riferivano da protagonisti quello che avevano visto e imparato davanti ad un pubblico composto da insegnanti, alunni, genitori e dagli stessi professionisti incontrati.

 

3) Alla settimana intensiva ed al lavoro in classe seguiva, per chi lo voleva, un’esperienza di stage in orario extra curricolare (2-4 settimane nei mesi di giugno o luglio) presso aziende accoglienti o presso gli ambienti di lavoro dei genitori della classe, che volentieri si mettevano a disposizione. L’esperienza lavorativa era intesa come verifica personale di quanto vissuto e compreso, e riguardava innanzitutto – come si è visto – l’aspetto soggettivo del lavoro.

Per questo motivo, i lavori proposti ai ragazzi e da loro stessi scelti di buon grado prescindevano dall’aspetto oggettivo e variavano dalle attività intellettuali a quelle manuali, senza alcuna discriminazione. L’attività di verifica era mantenuta sul piano dell’osservazione didattica grazie ad un insegnante-tutor, che durante e dopo lo stage cercava di favorire la riflessione sull’esperienza fatta e quindi ne curava l’esito formativo. Il tutto era poi valutato dal Consiglio di classe entro i primi mesi dell’anno scolastico successivo.

 

I frutti si vedono a scuola

Il progetto ha avuto successo anche in termini propriamente scolastici, e in questo ha giocato un ruolo spesso importante la scelta della tematica formativa “ponte”. Ne riporto un esempio significativo.

Durante un anno scolastico il “ponte” fu individuato nel tema “Intelligenza plurale, persona singolare”. Il motivo dell’intelligenza plurale nell’unità della persona era stato suggerito dalla constatazione che nella classe era presente un gruppo di ragazzi che avevano impegni extrascolastici strutturati. Essi quindi dovevano aver sviluppato competenze che non apparivano immediatamente nella loro “professionalità studente”, ma potevano essere trasferite in essa. Le competenze infatti sono trasversali e, una volta consolidate in una consapevolezza metacognitiva, sono trasferibili in contesti didattici: aiutano a svolgere un tema di italiano o a risolvere un problema di matematica.

Il Consiglio di classe decise quindi di cogliere questa opportunità per lavorare sulle competenze. In questo modo i ragazzi avrebbero potuto trasformare la propria esperienza extrascolastica in una immagine di sé da portare in classe e viceversa. Se l’intervento fosse riuscito, la conseguenza sarebbe stata un potenziamento dell’autoefficacia basato su una più adeguata percezione di sé e del proprio compito. Questo avrebbe potuto condizionare favorevolmente la performance e, più in là, provocare un arricchimento olistico, ossia incidente sulla totalità della persona.

La classe in effetti uscì tonificata dall’esperienza. Rilevante, in questa direzione, risultò il ruolo dei testimoni e in generale degli adulti che seppero proporsi come maestri: l’autoefficacia infatti è strettamente legata a chi “sponsorizza” la tua crescita facendoti capire che la puoi fare.

Dopo diversi anni si può dire che questa sperimentazione è stata una felice intuizione didattica. La prospettiva è risultata non solo facilmente e pienamente avvertita dai ragazzi, ma anche partecipata dagli insegnanti e gradita alle famiglie. Quanto agli imprenditori e agli esponenti del mondo del lavoro, l’hanno non solo condivisa ma anche abbracciata con entusiasmo, impegnandosi con talento nel loro ruolo di testimoni.

 

Quella proposta non ci sembra una prospettiva buona solo per il Liceo: la riteniamo adatta per ogni esperienza di formazione-lavoro. Del resto, gli stessi analisti dell’economia sono portati oggi a riconoscere che la risorsa più preziosa da coltivare è il capitale umano. L’umanesimo del lavoro incrocia immediatamente scuola e formazione professionale, impresa e scuola, economia ed educazione, e restituisce l’una all’altra. Noi l’abbiamo visto.

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