Cinque anni fa, quando cominciò l’avventura della “Bottega del Lavoro” alla Convention 2008 di Diesse a Pesaro, i partecipanti provenivano per la stragrande maggioranza dalla Istruzione e Formazione Professionale. Pochi giorni fa, a Bologna, nel corso dell’edizione 2013 delle Bottega, il grosso delle presenze era costituito da colleghi provenienti dalla istruzione tecnica e professionale di Stato. Con alcune significative presenze di docenti di liceo che all’interno dei loro Istituti presidiano le esperienze di Alternanza Scuola Lavoro.
Guardando alle più interessanti esperienze emerse nei lavori della kermesse bolognese del 12 e 13 ottobre scorso, il dato che emerge con evidenza è quello di una diffusione di buone – in certi casi verrebbe da dire ottime – pratiche relative alla integrazione dell’esperienza del lavoro nei percorsi di istruzione e formazione in tutti gli ordini di scuola secondaria di secondo grado.
E ancora, il tema interessa scuole di tutte le Regioni italiane, per così dire al “netto” delle perduranti differenze istituzionali esistenti tra territori e dell’impatto della crisi economica su tessuti e strutture produttive diversificati e distanti.
Possiamo dire che l’impatto tra scuola e lavoro comincia a essere percepito – e qui uso le parole del Preside dell’Istituto Mattei di Fiorenzuola d’Arda, Mario Monti – come “il punto eversivo della scuola italiana” al di fuori dal “recinto” dell’IeFP delle Regioni del nord… Ancora da pochi, forse. Ma sicuramente da diversi e variegati soggetti professionali (Dirigenti scolastici, docenti, responsabili di opere formative, progettisti, etc) e scolastici.
E questo fatto è una notizia. Piccola, forse. Ma ormai si tratta di un fatto che si consolida nel tempo. E sempre più si arricchisce di aspetti, articolazioni e prospettive: credo valga la pena di cominciare a esaminarne le principali.
Mutazione culturale?
Dal punto di vista della didattica, il lavoro non si esaurisce più nella mera laboratorialità nell’affronto di discipline curriculari. Diventa sempre di più un approccio unitario che parte dalla figura professionale oggetto del percorso non più come “traguardo”, ma come cifra di tutto il percorso. In questo senso è stato illuminante l’intervento di Alessandro Mele di Cometa (Como), che ha spiegato come nel loro percorso il mestiere per cui un ragazzo si prepara è presente da subito come criterio per la realizzazione di tutta l’attività educativa: tutte le forme, quali simulazioni, alternanza, stage, testimonianze, collaborazioni con aziende, nella loro specificità guadagnano lo spazio e la considerazione che possono farli diventare elementi fondamentali dei diversi percorsi scolastici. Lo stesso laboratorio applicativo riconquista la sua dignità e il suo spessore culturale. Certo: si tratta di una mutazione culturale, che per quanto incipiente, porta e intravede il tramonto delle discipline come unica architettura portante delle scuola italiana…
Se consideriamo cosa possa significare questo cambiamento di atteggiamento nell’ambito della valutazione del percorso e dei risultati scolastici di un ragazzo tra i 13 e i 19 anni, ci accorgiamo subito che si apre un immenso spazio per la condivisione della valutazione tra il singolo docente della singola materia, i suoi colleghi, come lui responsabili di un percorso che, nella sua integralità, mira a un risultato comune, e i soggetti esterni alla scuola, come le aziende, che non solo ospitano gli studenti per un periodo o collaborano alla realizzazione di “pezzi” del percorso, ma li valutano. Pena la loro irrilevanza scolastica e, peggio ancora, la sensazione di finzione – e in ultimo di menzogna – per il ragazzo, sensazione in grado di falsificare e azzerare ogni sforzo educativo che si possa mettere in campo.
Ripensare l’autonomia delle scuole
Ma chiedere a un soggetto esterno di condividere la responsabilità educativa insita nella valutazione implica riconsiderare in modo radicale il ruolo di questi soggetti nel costruire la scuola e conseguentemente ripensare in modo completamente nuovo la natura dei rapporti che una scuola autonoma deve tenere con il suo contesto, per essere sé stessa. Si fa sempre più chiaro il senso della parola autonomia: rispetto al territorio significa cominciare a considerare il passaggio da una modalità ultimamente amministrativo/burocratica di relazione della scuola con i soggetti intorno a lei (in fondo la scuola non è altro che un terminale del decentramento amministrativo del Ministero) alla necessità e ai rischi propri delle relazioni libere e imprevedibili di una Istituzione sociale con altre istituzioni sociali, quali le aziende, le famiglie, le associazioni, etc.
Al proprio interno autonomia significa cercare un nuovo punto di equilibrio tra i “diritti acquisiti” del personale da un punto di vista sindacale e i ruoli professionali nuovi (e ancora tutto sommato inesplorati, anche se ad occhio interessanti) che una scuola istituzione sociale autonoma e con una didattica incentrata su un paradigma culturale diverso da quello che oggi si mutua in modo acritico dall’accademia richiede necessariamente a chi ci lavora dentro.
La dimensione della progettazione
Proprio su quest’ultimo punto, la ridefinizione effettiva della professionalità dei dirigenti scolastici e dei docenti per effetto del “prendere sul serio” l’impatto del lavoro con i percorsi scolastici, la “Bottega Scuola Lavoro” di quest’anno ha toccato un punto nevralgico con una consapevolezza e una intensità a mio parere finora non sperimentata. Si tratta del tema e della dimensione della progettazione.
“Si lavora molto, in questa scuola…” Romolo Morandini, dell’IPSIA di Fiorenzuola, cita questo commento (ambivalente, va da sé) di alcuni colleghi, rispetto a quanto lui e i docenti di tutto l’Istituto comprensivo si trovano a dover inventare, realizzare e formalizzare per rispondere alle esigenze educative dei loro allievi. Esigenze – dato molto interessante – che possono essere anche di pochi, o di un solo allievo, ma che rivelano possibilità e prospettive inaspettate per tutti.
Lavorare molto significa identificare il bisogno, che si manifesta nei mille modi in cui emerge il disagio scolastico (e non solo negli IPSIA): problemi disciplinari, assenze, dispersione. O, come accade in modo quasi impercettibile ma massivo, nella forma silenziosa e letale di disaffezione scolastica. La scuola non ha nulla da dire alla vita (dis – interesse) e viene buona solo per quel minimo di socializzazione che il radunarsi coatto di ragazzi e ragazze permette. Il bisogno – è necessario dirlo – non è di tipo sociale o di “ordine pubblico”, ma prima di tutto culturale: chi insegna non riesce a intercettare le competenze umane di cui ognuno dei nostri ragazzi è portatore (c’è un mondo, là fuori!) e spesso ne lamenta la mancanza di “prerequisiti”(la buona educazione, la grammatica, la conoscenza del teorema di Pitagora o delle tabelline…). Di conseguenza il nostro discorso scolastico scivola come l’acqua sui sassi, senza conseguenze. E questo rende impossibile fare scuola…
Lavorare molto significa allora immaginare azioni concrete, sensate, realizzabili in cui le competenze umane di un ragazzo siano messe in condizione di emergere e finalizzate a un risultato che qualcuno possa apprezzare. E in questo possano servire da base ricettiva per tutto quello che un docente o un equipe sa di dover e poter portare come “plusvalore” culturale (cioè: come si fa, cosa vuol dire, cosa presuppone e a che cosa è connesso quello che stai facendo). Per essere concrete, sensate e realizzabili, queste azioni devono necessariamente fare i conti con quello che si può fare a scuola. Che, a detta di tanti partecipanti alla Bottega, è molto di più di quel che generalmente si pensa.
Lavorare molto significa dunque esplorare possibilità organizzative (tempi/spazi), giuridiche e lavorative in cui diventa necessaria l’alleanza tra docenti e tra docenti e dirigente. Il lavoro passato a organizzare (definire ruoli, compiti, esiti previsti e tempi di realizzazione dell’azione) non è tempo sacrificato alla burocrazia ministeriale, ma investito per creare le condizioni di fattibilità del proprio ruolo educativo e culturale. Per identificare e dare solidità a una ipotesi di organizzazione (cioè di didattica) che può andare oltre il paradigma didattico/accademico, che non è nemico dell’educazione e dell’istruzione scolastica, ma non può esserne il padrone.
Lavorare (è) valutare
Lavorare molto significa infine preoccuparsi perché i percorsi che nascono nel modo che abbiamo detto siano in grado di produrre valore aggiunto verificabile, e quindi valutabile, come ha ben esemplificato la prof. Ferrari dell’Istituto Tecnico di Fiorenzuola, a proposito della loro esperienza di Alternanza Scuola Lavoro. Questo a vantaggio innanzitutto degli allievi, che devono poter vedere quanto hanno camminato, percorrendo sentieri che non sono abituati a pensare far parte della scuola. E poi per i docenti, che giustamente non devono e non vogliono fare gli assistenti sociali. Infine per la scuola tutta, che deve poter vedere strade alternative e valide per trasmettere conoscenze, abilità, cultura. Focalizzare il proprio lavoro sulla valutazione del percorso non significa immolarsi all’altare della docimologia, ma preoccuparsi che il percorso progettato e realizzato possa essere raccontato al di fuori della propria scuola, e magari realizzato -con tutte le varianti del caso- al di là delle specifiche condizioni di fatto in cui è stato pensato e concretizzato. Significa in altri termini, formalizzare elementi di un canone culturale di cui la scuola italiana ha un estremo bisogno.
Individuare il bisogno, ideare strumenti operativi in grado di rispondere, verificare condizioni operative, organizzare l’intervento, coinvolgere alleati nell’operazione, verificare i risultati significa progettare. Cioè insegnare.
Forse è proprio vero che il rapporto tra lavoro e scuola è il punto eversivo del sistema dell’istruzione in Italia. Il lavoro della Bottega del Lavoro di quest’anno ha permesso di fare emergere due punti di lavoro che hanno grandi potenzialità di sviluppo: la valutazione e la progettazione. Non a caso i temi di altre Botteghe di Diesse. Una prospettiva di collaborazione per il futuro?