La scuola è luogo e tempo dove bambini, ragazzi, giovani passano giorni ed anni. Suo compito è educare istruendo, cioè accompagnare nell’avventura della conoscenza della realtà attraverso l’insegnamento – apprendimento delle materie (primo ciclo) e delle discipline (secondo ciclo di istruzione). Quanto e come, in questo suo servizio, contribuisce all’educazione al lavoro? È sufficiente che “faccia” studiare? Lo studio è lavoro o semplicemente prepara al mondo del lavoro? Proviamo a dare una prima risposta riflettendo sulla natura e la dinamica dello studio come applicazione all’apprendimento significativo, critico e sempre più autonomo, dentro e fuori la scuola.



L’etimologia ci ricorda che il sostantivo “applicazione” è un deverbale del termine “piegarsi” (ad-plicare) verso (ad) un qualcosa. Concetto questo presente anche nell’etimologia della parola “impiego” ( in – piego). Possiamo allora dire che lavorare è “piegarsi” verso un qualcosa per procacciare a sé e agli altri un beneficio? Sì. Anche studiare è piegarsi verso un oggetto culturale in modo da afferrarlo ( ad-prehendere), tenerlo con sé (cum-prehendere), farlo diventare parte di sé ( im-parare, cioè “preparare in sé”), farne esperienza e conoscerne il nesso con la realtà tutta.



Provo a darne le ragioni ed illustrarne le modalità soffermandomi brevemente su quelle, che in questi ultimi anni, con altri amici, chiamo le sei P dello studio : proposta, progetto, percorso, processi, prodotto, promozione.

 

A scuola non c’è studio senza proposta

Lo studio, di cui intendiamo parlare, non è l’attività dello studioso, (intellettuale, ricercatore, scienziato…), ma quello degli alunni di ogni ordine e grado della scuola. Lo studioso è un professionista: un adulto appassionato ed impegnato nella ricerca della verità, della bellezza, della bontà delle cose nei diversi campi del sapere, della scienza e dell’arte. Gli alunni sono bambini, ragazzi, giovani che vanno a scuola, più o meno volentieri, dove sono accompagnati e guidati in attività di apprendimento. Per essi lo studio ha piuttosto la fisionomia di una proposta ( più o meno pressante, piacevole o noiosa …) di un apprendimento (più o meno forzato, obbligato), valorizzata oppure ostacolata da altri ambienti e situazioni in cui essi vivono (famiglia, sport, tempo libero, mass-media …) .



Ci sono tuttavia docenti che si comportano come se lo studio fosse connaturale alla persona dell’alunno, quasi elemento strutturale dell’umano, un imperativo (“Dovete studiare”) intrinseco all’essere uomo (Mazzeo 2005). Ci sono genitori che identificano lo studio come sorte (fatale, benigna o malefica) dell’essere piccoli e dello stare ragazzi e giovani in una società in cui non possono che andare a scuola. Gli uni e gli altri, chi più chi meno, forse confondono tra apprendimento spontaneo ed apprendimento insegnato, tra il desiderio di conoscere e la conoscenza, tra la curiosità e la studiosità.

Il contenuto della proposta è apparentemente semplice: applicarsi all’apprendimento degli argomenti che vengono spiegati, esercitarsi nell’acquisizione di certe abilità, dedicare tempo adeguato alle singole materie, svolgere dei compiti che poi verranno corretti e valutati. Se, però, esaminiamo a fondo la questione, ci accorgiamo che il contenuto della proposta riguarda anche il metodo, lo scopo, le forme, lo stile, le capacità di ognuno, la triangolazione (docente-alunno- materia), il rapporto con la famiglia e le regole che governano tutti questi elementi.

Allora lo studio è una specie di lavoro commissionato? Non saprei. È indubbio, però, che lo studente medio (e ancor di più uno scolaro), da solo, molto probabilmente, non si impegnerebbe mai all’apprendimento di una disciplina scolastica; se sceglie di applicarsi, in genere, è perché avverte una proposta che “conta, paga, vale” anche per lui fino al punto di assu­mersi il rischio di ren­derla vera per sé (ve­rificare). Per “valere” la proposta dello studio deve essere autorevole, esigente e comprensiva, capace di fare appello seriamente alla libertà dell’altro, di toccare il desi­derio e le esigenze dello studente, di mobilitare l’affettività e risvegliare la consapevolezza del “potere, volere, dovere” svolgere un compito conveniente. 

Spesso siamo noi adulti quelli che riducono i contenuti, le ragioni, le modalità della proposta perché riduciamo l’insegnamento ad un addestramento “forzato”, al controllo di quaderni e risultati, a compiti in classe (a volte persino a sorpresa). Insegnare è, invece, condividere segni sulla strada che ha come meta la conoscenza di sé e delle cose. Non è “far lavorare i ragazzi”, ma lavorare con loro, camminare insieme per re-inventare la materia (grammatica, storia, matematica…) offerta e verificata nell’ora di lezione come frutto del lavoro di uomini di ieri e di oggi. In questo contesto lo studio è intrapresa personale, collaborativa, solidale (Mazzeo, 1997). Proprio come un serio lavoro.

È possibile che questo accada? Dipende da come lavora il docente, come sta in classe, da come ci si impegna tra i colleghi per e con i ragazzi. Non basta la parola, benevola o minacciosa, accattivante oppure omiletica. Occorre la presenza di un uomo in carne ed ossa che sappia creare un am­biente umano in cui si passi dal sistema dell’indifferenza al movi­mento della compromissione, dal recinto dell’individualismo allo spazio del coinvolgimento empatico.

Il primo che si “compromette”, si coinvolge, impara, crea e fa esperienza é il docente. Egli entra e sta in classe come in una sua bottega per “un’opera d’arte” .Qui l’aspettano gli allievi : alcuni per vederlo in azione, imitarne le mosse, capire le ragioni di quello “strano” lavoro, scoprirne i segreti; altri perché non sanno dove andare; altri ancora per provare a resistere allo studio ovvero ad “un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso” (Antonio Gramsci).

 

Non s’impara senza progetto e senza tensione a realizzarlo

Lo studio prende avvio da una proposta, ma procede e si sviluppa come progetto personale.

L’apprendimento umano, infatti, non é riducibile ad una trasformazione biochimica, né ad una fissazione superficiale di informazioni e di meccanismi operativi automatici. Implica sempre una “ ristrutturazione del rapporto Io/Mondo.” (Titone, 1973), di “un io” proteso a rispondere alle sue esigenze, desideroso di ri-stabilire un rapporto con il reale sempre più carico di soddisfazione. Certamente questo implica un percorso, un cammino e l’esercizio della libertà. Non avviene magicamente. Richiede tempo ed uno stile di vita da lavoratore. « Durante l’anno scolastico – ricordo agli studenti – non potete andare a letto come nei giorni di vacanza. Non potete passare il pomeriggio tra video clip, telefonini, facebook, videogiochi e simili». Studiare è scegliere e decidere responsabilmente. La prima cosa da scegliere è il tempo, condizione essenziale ed imprescindibile dello studio come di ogni altra attività umana. Lo si sceglie e lo si vive (non lo si lascia passare) rispondendo operativamente ed adeguatamente alle domande: “Quando, quanto, per quanto tempo studiare oggi”. Senza una decisa e precisa risposta a queste domande non ci sarebbe applicazione all’apprendimento e l’apprendere sarebbe confinato nelle magiche velleità del narcisismo onnisciente ed onnipotente di molti adolescenti e di certi uomini.

Lo sanno bene gli studenti di successo: quelli che effettivamente „sanno“ dare tempo allo studio, ma anche allo sport e ai rapporti interpersonali, dimostrano interesse verso le materie ma anche coltivano degli hobby, sanno partecipare alla vita della scuola e nello stesso tempo dedicare tempo ad altre attività ed associazioni. Sanno che “uno studente deve vivere la sua vita di uomo” (Bosquet); la voglia di vivere viene prima di quella dello studio scolastico, il rapporto con lo studio è un aspetto del rapporto con la realtà totale.

Si tratta di in un “sapere” acquisito per osmosi in famiglia e nell’ora di lezione del docente, che prima abbiamo definito “compromesso”, disponibile e capace a gestire il tempo tenendo conto di tutti i fattori implicati nella situazione didattica e rispettando, per esempio, la scansione (ingresso-svolgimento- sintesi) di ogni ora di insegnamento. 

Se nell’ora di lezione si fa esperienza di un tempo vissuto non come “minaccia di eternità”, ma come momento in cui “è “i minuti volano come secondi …il tempo non è più tempo” (Pennac), è più facile provare la convenienza della pianificazione del tempo a casa secondo criteri di personalizzazione (inclinazioni, esigenze, capacità, stile di apprendimento), di operatività ed efficienza. Soprattutto è possibile seguire la regola d’oro di ogni attività intellettuale: “Non tollerare né semilavoro né semiriposo. Datti tutto intero o distenditi in modo completo. Che non ci siano mai in te me­scolanze del genere.” (J.Guitton). 

Gli insegnanti ed i genitori possono facilitare la personalizzazione della regia della giornata, innanzitutto, favorendo la conoscenza e il rispetto dell’unicità e dell’originalità dei singoli studenti, e, in secondo luogo, svolgendo la funzione di punti di equilibrio e di sicurezza (tutela in certi periodi e per certi ragazzi) nell’organizzazione del tempo, senza mai, però, operare una sostituzione e deresponsabilizzazione dello studente e del figlio. La pianificazione delle attività dello studio, infatti, è dello studente. A lui occorre riconoscere il diritto-dovere a una gestione personale del suo tempo e a una scelta altrettanto personale delle priorità. Ovviamente anche l’esercizio di questo diritto-dovere è una meta educativa non un presupposto indipendente dall’attività di insegnamento e dall’organizzazione scolastica (Mazzeo, 2011) .

 

Un prodotto di qualità

Il vocabolario alla voce prodotto presenta quattro significati in diversi contesti. Uno rimanda a quello dell’aritmetica e della geometria e, dopo aver ricordato che il termine “prodotto” indica il risultato dell’operazione di moltiplicazione, osserva che esso esprime anche l’esito di altre operazioni analoghe alla moltiplicazione ordinaria.  

Ho intuito in questo modo che il procedimento dello studio è simile alla moltiplicazione. Infatti l’etimologia di questa parola rimanda al termine multiplex, composto di multi+plex, ciò “che piega” (Devoto 1980). Ho intuito che l’apprendimento è il prodotto di un moltiplicando (conoscenze, abilità e capacità dello studente,) e di un moltiplicatore (domande, problemi, ipotesi di risposta e di soluzione della materia).

Ora non so dire se l’analogia è perfetta. Di certo sono convinto che lo studente, se vuole arrivare al massimo guadagno nel suo impegno, deve piegarsi più volte ed attivare attitudini, abilità e conoscenze acquisite anche negli spazi degli apprendimenti non formali (esempio, associazioni) ed informali ( gruppo dei pari, famiglia, mass-media …) . Spesso i compiti vengono svolti così in fretta e furia dimenticando che la meta è un prodotto di qualità i cui i parametri sono: la significatività, la criticità, una crescente autonomia nell’acquisizione degli apprendimenti, nell’esercizio dell’appreso, nell’uso ermeneutico ed investigativo delle conoscenze. Nel controllare e valutare tale prodotto il docente non può censurare il fatto che lo studente può e deve riconoscere il risultato del lavoro nella sua dimensione oggettiva ( il prodotto, cioè il sapere acquisito documentabile) e soggettiva ( il profitto) nei termini evocati da Reboul e da Rombach.

 «Che cos’é l’apprendere – si chiede Reboul – se non il passare da uno stato a un altro, più desiderabile? Apprendere è liberarsi da un’ignoranza, da un’incertezza, da un’incapacità, da un’incompetenza, da una miopia; significa riuscire a far meglio, a capire meglio, a essere migliori. Ora, chi dice ‘meglio’dice valore» (Reboul, 1995). Dove sta ilvalore dello studio se non nel fornire un contributo determinante «all’ au­tocostruzione del­l’in­dividuo», nel facilitare un rapporto con le cose e favorire un sapere (sapore) su di esse che si fonde in­sieme con lo studente, un qualcosa «che non perderà mai, per­ché egli stesso non si può perdere» (Rombach, 1973)?

Se accade tale esperienza, lo studio scolastico diventa fattore di conoscenza, la quale nella misura in cui cresce e matura criticamente diventa competenza. Cosa questa che accade anche nel lavoro svolto liberamente ed adeguatamente.

La cartina di tornasole per eccellenza della qualità del prodotto e del profitto è la promozione, intesa non semplicemente come passaggio all’anno successivo ma come “spinta in avanti”, qui ed ora, verso un insieme di benefici per e nel rapporto con il reale, in un continuo approssimarsi (avvicinarsi) all’essenza delle cose e quindi verso il compiersi della persona.

Ed anche in questo lo studio, proposto a scuola, è nell’apprendimento, che maturando diventa conoscenza, socio del lavoro, manuale e non, svolto in famiglia, nei laboratori, negli stage, ecc.

 

 

Mazzeo R. Insegnare un metodo di studio, Il Capitello,Torino,1997

Mazzeo R. L’organizzazione efficace dell’apprendimento, Erikson, Trento, 2005

Mazzeo R. Studiare: missione impossibile, La Scuola, Brescia, 2011,

Reboul O. I valori dell’educazione, Editrice Ancora, Milano,1995

Rombach H. Antropologia dell’apprendimento, in “Il processo dell’apprendimento”, La Scuola, 1973

Titone E. L’apprendimento educativo, Bulzoni, Roma,1975

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