Ormai da un lustro, l’Associazione Diesse (Didattica e Innovazione Scolastica) ha posto al centro della sua presenza pubblica, dentro e fuori il mondo della scuola, “Le Botteghe dell’insegnare”: liberi gruppi di insegnanti che affrontano, in momenti pubblici come l’annuale Convention dell’associazione o in riunioni, incontri e workshop anche telematici durante l’anno, alcuni temi cruciali per il loro mestiere, per l’ambiente in cui questo si svolge (l’istituzione sociale chiamata scuola) e quindi in generale per lo sviluppo del nostro Paese. La Bottega Scuola – Lavoro, che è riuscita a coinvolgere molte persone di estrazioni e professioni diverse, ha elaborato una serie numerosa di testi preziosi, presenti nel sito di Diesse. Ecco una guida per una lettura proficua ed un confronto critico.  




Ormai da un lustro collaboro con alcuni amici e colleghi alle attività della bottega “Scuola – Lavoro”, il cui responsabile è Paolo Ravazzano: uno degli aspetti più intriganti di questa collaborazione è che la Bottega continua a riproporre alla mia attenzione temi e questioni che non sono solo interessanti, ma che in realtà hanno la caratteristica di fare da punto focale, in modo talvolta inaspettato, di tutta la mia esperienza professionale, che è fatta di insegnamento in ambito scolastico, di formazione in ambito aziendale e di approfondimento di temi che incrociano il diritto, la politica, lo sviluppo sociale.



Credo che questo accada perché la bottega stessa verte su una questione, l’impatto tra scuola e lavoro, che ha una posizione cruciale, non tanto e non solo per quanto riguarda il futuro della scuola tecnica (Istruzione Tecnica, Istruzione Professionale, Istruzione e Formazione Professionale,) ma  rispetto alle principali questioni che definiscono il presente della scuola italiana tutta, dall’infanzia all’università; ne evidenzia la modalità fondamentalmente dualistica con cui queste si pongono alla nostra attenzione; centra alcune questioni chiave e alcune ipotesi di approccio a queste, ed è in grado di porle in “terra incognita”, potenzialmente fuori dai consueti ambiti “educativo/sentimentale” o “didattico/organizzativo” in cui sembrano risolversi (e perdersi) tutti i tentativi di pensare la scuola oggi.



E se è vero che individua alcuni punti specifici della scuola italiana (oggettivamente in primis la scuola tecnica,  in cui è possibile vedere” in vivo” dinamiche ed esperienze, è altrettanto vero che queste possono costituire paradigma per tutta la scuola (in questo senso l’impatto scuola lavoro riguarda – e la bottega che lo pone come oggetto di attività è aperta a – colleghi e istituzioni “di ogni ordine e grado”)

Un altro aspetto prezioso della Bottega Scuola – Lavoro è che è riuscita a coinvolgere molte persone di estrazioni e professioni diverse, sia negli incontri, sia – ed è questo il punto – nella redazione o nella collazione di testi che, nel tempo, sono andati a costituire un nucleo di documentazione originale, ampio e non di rado pregevole, che rimane a disposizione di chiunque abbia interesse ad accedervi.

Rileggendo recentemente alcuni di questi contributi, emergeva in modo chiaro come le sopra ricordate questioni fondamentali della scuola italiana, generate da questo impatto tra scuola e lavoro (impatto, giova ricordarlo, non ideologicamente ricercato ma oggettivamente presente ed esigente) siano in realtà i punti intorno ai quali si addensano gli interventi, gli scritti e gli studi che corredano e documentano il lavoro della Bottega “Scuola – Lavoro”.

Questo articolo è quindi un primo tentativo di ordinare/organizzare la “repository” della nostra bottega a partire e come sviluppo dei punti nodali intorno ai quali si svolge (e talvolta si avviluppa) il pensiero e il dibattito sulla scuola italiana oggi.

Otium/Negotium

E’ il tema chiave, la “madre di tutte le battaglie”. Sembra strano, ma è così. L’impatto tra scuola e lavoro ha come nucleo centrale quello della richiesta utilità, per il mondo del lavoro (e quindi per le imprese e per i giovani che in esse cominceranno la loro attività professionale), di ciò che viene insegnato a scuola. Questa richiesta è un fatto, testardo ed esigente, con cui la scuola – in primis la scuola tecnica – deve fare i conti. E’ un fatto dalla portata in larga parte ancora inesplorata, del quale normalmente ci si limita a sottolineare (in positivo o in negativo, ma quasi sempre in una dialettica “dualistica”) la distanza rispetto alla impostazione fondamentale della scuola per come riusciamo e intenderla e a interpretarla oggi, all’acme della sua crisi.

Probabilmente, ciò che davvero costituisce il problema ( e in qualche misura lo scandalo) del fatto che una realtà sociale (limitata, imperfetta, spesso culturalmente povera, afasica nell’articolare con precisione i propri “desiderata”, e in ogni caso anch’essa in un momento di profonda crisi) come “il mondo del lavoro” pretenda qualcosa dalla scuola è che il contenuto dell’insegnamento possa essere determinato fuori e indipendentemente dalla scuola stessa. 

D’altra parte, nella scuola tecnica (con questo termine continuo ad indicare l’Istruzione tecnica, l’Istruzione professionale e l’IeFP, nelle Regioni dove questa è una presenza sistemica) questa pretesa è costitutiva. Non bisogna, però,  pensare che in questo ordine di scuola il problema sia risolto: se da un lato si accetta che occorre un riferimento al mondo del lavoro, rimane del tutto da capire se e in quale misura è possibile ammettere concreti soggetti espressione di questo per  condividere la responsabilità educativa di cui la scuola, giustamente, si sente portatrice.

E ancora: questa eventuale condivisione è un “male necessario” o ha una valenza positivamente culturale (con ciò ammettendo che la cultura possa essere “prodotta” anche fuori dalla scuola…)?

Questo nodo problematico, che a voler essere sinceri è presente nel mondo della scuola e dell’accademia – sostanzialmente non compreso – da almeno cinquant’anni, trascina con sé questioni quali quelle dell’oggetto dell’insegnamento (e quindi dell’educare, inteso come introdurre alla realtà, insegnando), della trasmissione della cultura (intesa come punto sintetico, sperimentabile e incrementabile di comprensione della realtà sotto tutti i suoi aspetti), dell’organizzazione del sapere/dei saperi (secondo criteri metodologico/scientifici disciplinari e/o secondo criteri sintetici attingibili, ad esempio, nella concreta esperienza del lavoro), dello scopo e dell’utilità di ciò che viene insegnato (e quindi dell’opportunità o meno di insegnare qualcosa), nella dinamica dialogica della scuola verso una “committenza”, sociale ed economica, e in definitiva politica, quale quella del “lavoro”.

Intorno a questi temi, può essere utile (giusto per intravvedere alcuni primi sviluppi delle questioni sopra ricordate) la lettura di alcuni contributi presenti nella sezione “Antologia di testi su “Istruzione e Formazione”, all’indirizzo sopra indicato, quali gli articoli di Felice Crema e di Paolo Ravazzano che riprendono il tema dell’”otium” degli antichi in relazione alla questione dell’utilità e del saper fare; alcuni interventi presenti sul numero 8 del Corriere delle Opere su “Lavoro e Formazione”, l’abstract “Il lavoro e la scuola: possibili approcci” di Elena Ragazzi presentato alla Bottega Lavoro in occasione della Convention 2011; l’articolo di Matteo Foppa Pedretti “Giovani senza lavoro per colpa di un “oggetto smarrito” (sul tema della struttura dialogica di scuola e lavoro), ed eventualmente il contributo dal titolo chestertoniano “La grande alternativa è tra Padre O’Connor e gli studenti di Cambridge”.

 

Interesse/disinteresse

Parallelamente alla scoperta di questa richiesta dell’”altro”, rappresentato dal mondo del lavoro, si aprono prospettive altrettanto drammatiche per quanto riguarda l’attesa che gli stessi allievi hanno riguardo alla scuola, il loro statuto nel processo di apprendimento, la dimensione e la legittimità della presenza a scuola dei loro “mondi vitali” extra scolastici.

Anche rispetto a questo nodo problematico si possono fare le medesime considerazioni generali fatte riguardo alla utilità e alla potenziale finalizzazione al lavoro degli insegnamenti.

La questione dell’interesse dello studente rispetto a quanto proposto dalla scuola (che è generale, e che comincia a emergere in modo sensibile dalle scuole medie, se non addirittura negli ultimi anni della scuola elementare…) si pone in modo particolarmente urgente nel segmento scolastico della scuola tecnica, non perché sia una sua problematica specifica, ma perché qui gli studenti, a fronte di un disinteresse (cioè di un mancato incontro tra i contenuti della scuola e l’esperienza di cui essi sono portatori o cercatori) semplicemente abbandonano.

Sociologicamente, questa particolare esposizione al rischio dispersione può trovare alcune iniziali spiegazioni nella maggior debolezza sociale, economica e culturale degli allievi degli Istituti Tecnici e Professionali, per non parlare di quelli dei CFP.

Se la consideriamo dal punto di vista dell’orientamento, emerge come,  da un lato, queste scuole siano spesso vissute come una sconfitta per gli allievi ivi instradati dalla terza media, e dall’altro come la tendenziale unificazione del biennio abbia spostato troppo avanti nel tempo proprio quegli aspetti operativi, tecnici e professionali che spesso sono attesi come momenti di sperimentazione, affermazione e rivincita dagli stessi studenti.

Tutte queste considerazioni hanno un reale e forte fondamento di verità, e rendono il segmento della scuola tecnica il luogo dove questo tema si pone con evidenza e deve trovare una risposta adeguata. Ma non bisogna tralasciare la radice educativa del problema, che riguarda tutta la scuola: la domanda – rozza, insistente e fastidiosa – che tutti gli studenti pongono, in buona o in mala fede, per esprimere un disagio o per nascondere la cattiva volontà di affrontare l’impegno scolastico è una sola: “Ma a che cosa mi serve studiare?” La domanda può essere lasciata in generale o le si può aggiungere una serie di materie a scelta….. Cioè in sostanza: “Cosa centra tutto questo con me, con la mia vita, etc?”

Un altro fatto, testardo ed esigente, è che l’introduzione della dimensione del lavoro, o forse meglio, l’introduzione della realtà “esterna” alla scuola “sub specie laboris” ha un sensibilissimo effetto positivo dal punto di vista dell’interesse e della rimotivazione all’esperienza scolastica in generale (non solo per quanto riguarda gli aspetti tecnici, professionali o addestrativi: vedi ad esempio l’articolo di Paolo Ravazzano sull’insegnamento della storia e della geografia nel Secondo Canale di morattiana memoria ): esiste, in termini più generali, una fortissima potenza educativa nell’esplicitare il senso oggettivo e riconoscibile verso una utilità per altri, più che per se stessi, di ogni gesto, impegno ed elemento che costituisce il contesto scolastico; senso di cui i docenti, nella loro coralità, sono testimoni.

Paradigmatici della pervasività della richiesta di senso e del livello di oggettività che la risposta deve avere sono alcuni passaggi dell’intervento di Diego Sempio “Sul POF”, che raccoglie un testo di una lezione a distanza a un gruppo di formatori e insegnanti ugandesi, oltre che una serie di interventi diversi dello stesso autore relativi ai temi della motivazione/rimotivazione attraverso l’esperienza del lavoro come portatore di senso, dell’orientamento (su questo è interessante anche l’articolo di Cristina Casaschi “Scuola: se vuole educare, insegni come si lavora), del rapporto tra apprendistato e lavoro, nonché dei loro aspetti problematici.

Il medesimo tema, affrontato non in termini esperienziali e “fenomenologici”, ma oggettivato in studi di tipo sociologico, è riscontrabile negli studi di Elena Ragazzi e Carlo Lauro, sia sulla situazione nazionale, sia come “spot light” su alcune situazioni locali (Torino; Catania), o nella ricerca di Gustavo Pietropolli Charmet, citata nell’articolo “Svelato il mistero di quei ragazzi che perdono tempo all’istituto tecnico”.

 

L’esperienza del lavoro a scuola

Atteso che i nodi tematici sopra evidenziati appartengono a tutta la scuola, e che l’Istruzione Tecnica, l’Istruzione Professionale e l’IeFP sono semplicemente i luoghi dove essi emergono in termini costitutivi (il rapporto con la richiesta del mondo del lavoro) o in modo più drammatico che altrove (il problema dell’interesse come elemento educativo fondamentale), rimane vero che la scuola tecnica è anche il contesto in cui il rapporto con il lavoro non costituisce solo causa o sintomo del problema, ma anche l’inizio di possibili soluzioni.

La Bottega del lavoro ha avuto ed ha ben chiaro che non è sufficiente collazionare buone pratiche, o esperienze sensazionali ma non ripetibili di coesistenza/cooperazione/corresponsabilità educativa tra scuola e lavoro, bensì è necessario individuare le condizioni che permettano, nei diversi contesti geografici (non dimentichiamo che la Istruzione e Formazione Professionale sono di competenza regionale, anche nei suoi raccordi con l’Istruzione Professionale “di Stato”: vedi in questo senso i due interventi di Giovanni Desco per i lavori della Bottega) e nei singoli “sottosistemi” scolastici, di favorire il più possibile lo stipularsi dell’alleanza tra soggetti educativi e realtà espressione del mondo del lavoro.

Questo per due fondamentali ragioni: il primo è che l’appuntamento di questa alleanza ha probabilmente le potenzialità per essere uno dei fondamentali driver di ripensamento e rinnovamento della scuola italiana. Come abbiamo cercato di inquadrare, sono moltissime le questioni aperte, che necessitano della riflessione e dell’esperienza del maggior numero di soggetti possibili. Più è ampio il numero di soggetti e contesti in cui questo lavoro avviene, maggiore potrà essere la diffusione e l’approfondimento culturale sui temi.

Il secondo è che le condizioni “ordinarie” possono costituire un facilitatore perché il rapporto tra scuola e lavoro sia vissuto non come una sorta di estrinseco “deus ex machina” capace di risolvere situazioni drammatiche e marginali, ma al livello per cui esso pone e ripropone le domande – fondamentali e da lungo tempo inevase – a cui la scuola deve rispondere se vuole essere se stessa.

In questo senso i contributi che si possono trovare nei materiali della Bottega del lavoro provengono da diversi luoghi (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Veneto), riguardano reti di scuole (Bruno Perazzolo sulla rete di Gavirate), Istituti professionali (gli interventi di Silvia Dominici), Istituti comprensivi (Mauro Monti ), Formazione professionale e sono inerenti a diverse forme e modalità con cui il lavoro entra a scuola (dall’Alternanza ai laboratori, dalla partecipazione e collaborazione con le imprese del territorio alla realizzazione di imprese formative; vd in particolare gli interventi di Albiero, Vincenzi e Raffaelli sui ristoranti didattici e l’inquadramento generale sul tema da parte di Massagli e Andreozzi).