È passata quasi sotto totale silenzio la notizia che gli Stati Uniti hanno ottenuto l’estradizione di Abu Agila Mohammad Masud Kheir al Marimi, ex agente dell’intelligence libico, sospettato di aver fabbricato la bomba che distrusse il volo Pan Am 103 sopra la città di Lockerbie, in Scozia, nel 1988. Lui stesso nel 2010 ammise di aver preparato l’ordigno. Dovrà adesso comparire davanti al tribunale federale di Washington per affrontare le accuse.



In quell’attentato, considerato uno spartiacque del terrorismo internazionale aprendo la strada alla distruzione delle Torri Gemelle nel 2001, morirono 259 persone in volo e 11 a terra, cittadini di 21 Paesi diversi. Tra i 190 americani a bordo c’erano 35 studenti della Syracuse University che tornavano a casa per Natale dopo un semestre all’estero. Il governo libico del premier nominato dal parlamento di Tobruk, Fathi Bashagha, ha condannato l’estradizione, invitando il procuratore generale, Al-Siddiq Al-Sour, ad avviare un procedimento penale contro le persone coinvolte nell’operazione, descrivendola come un “crimine atroce” e un “precedente pericoloso”.



Gli Stati Uniti non si sono però fermati qui, chiedendo l’estradizione di due funzionari dell’intelligence libica dei tempi del regime di Gheddafi. Ne abbiamo parlato con Stefano Piazzagiornalista, scrittore ed esperto di sicurezza e terrorismo.

Come mai a tanto tempo dall’attentato contro il volo Pan Am 103 gli Stati Uniti si stanno concentrando su personaggi dei tempi di Gheddafi? Forse sono a conoscenza di segreti importanti per gli americani?

Il problema è diverso. Qui si tratta di persone legate a episodi specifici di terrorismo che hanno causato vittime americane. Gli Stati Uniti, lo abbiamo visto in decine di casi, ad esempio con l’uccisione di al Zawahiri numero uno di al-Qaida, o dello stesso Osama bin Laden, hanno la memoria lunga. Non smettono mai di perseguire i loro obiettivi, possono passare anche 50 anni dai fatti, ma quando mettono nel radar una persona continuano ad accumulare prove su di lui. Al momento opportuno o lo colpiscono, eliminandolo, oppure ne ottengono l’estradizione. Esercitano una pressione tale che uno è obbligato a consegnarlo. Non è una cosa che deve stupire più di tanto, anche perché con la progressiva destabilizzazione che sta subendo la Libia si aprono spazi in cui ottenere la consegna di persone che hanno nuociuto agli interessi americani.



Anche perché molti di loro si sono riciclati nei nuovi sistemi di potere, e lasciarli liberi di agire potrebbe essere ancora pericoloso?

Esatto. Molti di questi personaggi oggi fanno parte a vario titolo dei due governi in cui è diviso il Paese, occupano posizioni apicali, si sono riciclati. Ma la la ragione fondamentale è che gli americani non dimenticano mai.

Sembra un po’ una sorta di vendetta a mente fredda?

Più che vendetta è una questione legata alla capacità di non lasciare in giro colpevoli o presunti tali. Quando gli Stati Uniti decidono che una persona ha nuociuto agli interessi americani passa sì il tempo, ma il dossier è sempre aperto. Le agenzie di intelligence americane hanno centinaia di migliaia di dipendenti, queste situazioni vanno avanti a prescindere dal presidente in carica, si tratti di Bush, Obama, Trump o Biden.

Fathi Bashagha, il primo ministro nominato lo scorso 10 febbraio dal Parlamento di Tobruk in opposizione al governo di unità nazionale, ha criticato pesantemente l’estradizione, parlando di atto di terrorismo americano.

Questi leader libici hanno una sovranità limitata, il loro peso specifico è solo in una regione, molto spesso addirittura in una sola città. Spesso rilasciano affermazioni che sanno benissimo essere utili ai loro supporter e basta. Figuriamoci se questi personaggi sono in grado di opporsi alla volontà americana.

Tra l’altro non ci sono anche i russi a sostenerli?

Certo. Ma più passa il tempo e più Mosca avrà difficoltà a sostenere tutte queste operazioni in giro per il mondo come quelle che sta facendo in Africa. Le risorse verranno meno. Ripeto: sono affermazioni da prendere con le pinze.

Però la cosa sembra allargarsi. Bashagha ha messo in guardia con una sorta di minaccia l’Eni dall’attuare una proposta di aumento della propria quota nella Compagnia petrolifera libica. Si vuole vendicare? Usa il ricatto, andando a colpire l’Italia?

Questi pseudo-dittatori quando alzano il tiro è sempre per motivi personali. Il che significa che vogliono avere la loro parte di ricchezza. Le sue parole sono un messaggio ai naviganti, non certo per motivi patriottici, quanto per la volontà di avere dei benefici personali: Bashagha vuole la propria fetta di torta. Si combatte per avere il controllo delle risorse petrolifere, per mettere le mani sui soldi del petrolio. L’avviso dunque è: quanto mi date?

(Paolo Vites)

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