Torna il caos in Libia. Un’ampia protesta popolare, la più grande dal 2011, è esplosa in questi giorni a causa del netto peggioramento delle condizioni di vita. Una situazione paradossale, perché il paese nordafricano fa gola all’Occidente per i suoi giacimenti di petrolio, ma al tempo stesso viene lasciato al suo destino. Le proteste sono cominciate venerdì sera a Tobruk, con i dimostranti che hanno dato alle fiamme spazzatura e copertoni davanti alla sede della Camera dei Rappresentanti. Poi sono entrati all’interno distruggendo documenti, scrivanie e scaffali. In piazza, invece, veniva scandito lo slogan famoso nelle rivolte arabe del 2011: “Il popolo vuole la caduta del regime”.



La protesta si è gradualmente estesa ad altre città, come a Bengasi, roccaforte del generale Khalifa Haftar. Invece a Misurata i manifestanti hanno provato a fare irruzione nella sede della municipalità. Ma l’ondata di proteste ha raggiunto Tripoli, con centinaia di persone radunate in Piazza dei Martiri per chiedere nuove elezioni presidenziali e parlamentari. I manifestanti sono arrivati anche al quartier generale del primo ministro, ma le forze di sicurezza li hanno allontanati sparando in aria. La protesta però non si è placata, infatti sono state alzate barricate sulle principali arterie stradali a est della capitale.



PREMIER LIBIA “DIMETTIAMOCI E ANDIAMO AL VOTO”

La situazione in Libia è a dir poco delicata. La gente è impoverita, penalizzata da interruzioni di corrente elettrica fino a 18 ore al giorno, con le temperature che arrivano fino a 45 gradi. Inoltre, c’è l’aumento dei prezzi dei generi alimentari (e bisogna tener conto che la Libia importa quasi tutto il suo cibo), manca il carburante, anche se in Libia c’è una tra le più grandi riserve di petrolio. La guerra in Ucraina ha fatto salire i prezzi a livelli insostenibili. A ciò si aggiunge il caos tra le fazioni. Le divisioni politiche penalizzano il settore energetico: c’è un’ondata di chiusure forzate di impianti petroliferi.



Dopo le violenze che stanno scuotendo la Libia, il premier Abdel Hamid Dbeibah, sostenuto dalla comunità internazionale, ha lanciato un grido di dolore, chiedendo dimissioni collettive di tutte le istituzioni politiche per portare i cittadini subito al voto. “Aggiungo la mia voce ai manifestanti in tutto il Paese: tutti gli organi politici devono dimettersi, compreso il governo, e non c’è modo per farlo se non attraverso le elezioni”, ha scritto su Twitter. Il Consiglio di presidenza è in seduta permanente proprio per “realizzare la volontà dei libici (che vogliono) il cambiamento e la produzione di un’autorità eletta”. L’oggetto della rabbia dei libici è, infatti, la classe politica, giudicata non in grado di dare risposte concrete ai problemi quotidiani e incapace pure di convocare nuove elezioni, dopo l’annullamento di quelle previste lo scorso dicembre.

I TIMORI DELL’ITALIA

La situazione preoccupa l’Italia. “Oggi nel Mediterraneo si riverberano gli echi dell’aggressione russa all’Ucraina, ma anche la fragilità dell’area medio-orientale, le difficoltà di alcune regioni del Nord Africa e, soprattutto, del Sahel. Da tutte queste situazioni si possono originare minacce dirette alla nostra sicurezza. Lo vediamo con quello che sta accadendo in queste ore in Libia“, ha dichiarato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini nell’intervista resa a Repubblica. Reduce dal vertice Nato di Madrid, che ha incluso l’attenzione al Fronte Sud nella nuova visione strategica, il ministro ha spiegato le situazioni pericolose, comprendendo la Libia. “L’intricata e persistente condizione della Libia; la fragilità di alcuni Stati dell’area sub-sahariana; la presenza di gruppi terroristici; la postura aggressiva, anche militare, di alcuni attori internazionali; i venti di guerra nel Corno d’Africa; il mai sopito problema della pirateria“. Guerini cita anche “i rischi originati dalla presenza di grandi organizzazioni criminali e dalle emergenze alimentari come quella derivante dalla guerra, che possono generare fenomeni migratori ben più consistenti di come li abbiamo fino ad ora conosciuti. Tutto ciò ci obbliga ad agire, innanzitutto come Europa, non solo attraverso interventi di natura militare ma anche con gli strumenti della diplomazia e, soprattutto, del sostegno allo sviluppo. Perché senza sviluppo non potrà mai esserci vera sicurezza“.