“Oggi è stata una giornata importante per ampliare le opportunità di investimento delle nostre aziende in Libia nell’edilizia, nell’energia e nelle tecnologie, per dare un contributo alla ricostruzione”. Sono state queste le parole pronunciate lo scorso 1° settembre dal ministro egli Esteri italiano, Luigi Di Maio, dopo l’incontro con il capo del Governo di accordo nazionale (Gna) Fayez al-Serraj a Tripoli. Parole che lascerebbero ben sperare in una ripresa dei rapporti commerciali con un paese che fino al 2011 era un nostro partner economico di primo piano, ma che non tengono conto dell’attuale situazione sul terreno.



Nell’ovest libico, dove il governo vorrebbe portare “il brand Italia”, come dichiarato dallo stesso Di Maio, c’è un terzo incomodo con i piedi ben piantati sul terreno e con gli occhi puntati sui futuri investimenti nel paese: la Turchia di Erdogan.

Se è vero che l’Italia sembra aver strappato al Governo di accordo nazionale la promessa della ricostruzione di due terminal dell’aeroporto di Tripoli, per un valore di circa 78 milioni di euro, è altrettanto vero che Ankara sembra viaggiare su ben altri binari.



Lo scorso agosto il responsabile della difesa turco e quello del Qatar hanno firmato un accordo con Serraj che prevede la creazione di una base navale turca nel porto di Misurata, con una concessione di 99 anni. In base allo stesso accordo, l’aviazione militare turca potrà utilizzare la base aerea di al-Watya a sud-ovest della capitale. Ankara aumenterebbe così la sua proiezione strategica sul Mediterraneo orientale e nell’intera area nordafricana. Doha, invece, si aggiudicherebbe la ricostruzione di tutti i centri di sicurezza di Tripoli distrutti a causa dei recenti combattimenti.

Come se non bastasse il 6 settembre il ministro dell’Industria e della tecnologia turco, il presidente dell’Autorità libica per gli investimenti (Lia) e il governatore della Banca centrale libica hanno firmato un protocollo di cooperazione tecnologica ed economica che prevede importanti progetti bilaterali in vari settori. Nel frattempo uomini d’affari turchi stanno iniziando a fare la spola con la Libia. Solo per citare un esempio, secondo alcune indiscrezioni, sarà una società turca, la SCK guidata da Mehmed Kobacas, vicino a Erdogan, a monitorare tutte le importazioni dirette al porto di Tripoli per conto del Gna.



D’altra parte la Turchia, con il sostegno del Qatar, ha investito uomini e mezzi a supporto del Governo di Tripoli nella guerra contro il generale Haftar e pensare che ora non chieda il conto, anche in termini economici, è quantomeno ingenuo.

Non va, poi, dimenticato che l’interesse di Erdogan per la Libia non è cosa recente. Seppure Gheddafi nel 2004, quando si prospettava un possibile ingresso della Turchia nell’Ue, aveva definito Ankara “il cavallo di Troia del mondo islamico”, il Sultano non ha mai dimenticato le opportunità che la Jamahiriya avrebbe potuto offrire in termini strategici ed economici.

Senza andare troppo indietro nella storia, basti ricordare che, nel novembre del 2009, Erdogan aveva visitato la Libia, accompagnato da un cospicuo numero di imprenditori, con lo scopo di dare il via a una cooperazione in diversi settori, dall’oil&gas all’edilizia. L’anno successivo i due paesi avevano concordato di implementare i reciproci investimenti nei settori dell’energia, delle piccole e medie imprese, della tecnologia, dei trasporti e dell’agricoltura. Come affermato di recente dal ministro del commercio turco, Ruhsar Pekcan, il volume dei progetti di Ankara in Libia ammonta a 28,6 miliardi di dollari. Una buona parte è concentrata nel settore delle costruzioni.

Senza dubbio, come è accaduto anche per l’Italia, l’instabilità causata dalla caduta di Gheddafi ha danneggiato gli affari della Turchia, che ora vanta importanti crediti che vorrà riscuotere quanto prima. Pertanto, per recuperare gli investimenti in essere e realizzarne di nuovi non sarà disposta a cedere nulla in termini di ricostruzione e la posizione privilegiata che si è guadagnata in questi ultimi anni con gli attori dell’ovest le consente un margine di manovra capace di limitare le ambizioni di ogni possibile competitor, Italia in primis.

Secondo la Camera di commercio ItalAfrica, prima della caduta di Gheddafi le Pmi italiane stavano investendo in Libia somme molto ingenti in campo energetico, ma anche nel settore delle infrastrutture e delle telecomunicazioni. Solo per fare qualche esempio, Ansaldo si era aggiudicata due contratti per la relazione delle ferrovie libiche del valore complessivo di 740 milioni di euro, Impregilo aveva siglato contratti per un miliardo di euro per la costruzione di tre centri universitari e del nuovo centro congressi di Tripoli e così molte altre imprese, anche di minori dimensioni.

Oggi il contesto è completamente mutato, altri attori hanno sapientemente sfruttato le nostre assenze e i nostri tentennamenti per entrare nel paese e giocare da soli la partita e ora godranno dei benefici di questa “vittoria a tavolino”. Pensare di rientrare nel mercato libico da protagonisti e riprendere “da dove avevamo lasciato” è pura utopia.