Come avevamo avuto modo di indicare, era prevedibile che il Gna di Serraj concedesse alla Turchia sia l’infrastruttura portuale di Misurata – come base navale per legittimare de facto la proiezione di potenza turca nel Mediterraneo centrale – sia l’aeroporto militare di al-Watya sito nella Tripolitania occidentale. Al di là del fatto che tale accordo sia stato siglato il 17 agosto a Tripoli, il dato geopolitico di grande rilievo è la presenza di un terzo soggetto – accanto alla Libia e ad Ankara – e cioè il Qatar.
Per quanto concerne i rapporti bilaterali tra Turchia e Qatar ricordiamo, seppure brevemente, che la Turchia ha sempre supportato sul piano militare il Qatar ricevendone in cambio un ampio sostegno finanziario. A tale riguardo basti ricordare che, ad esempio, il vicecomandante delle forze di Ankara, Ahmed bin Muhammad, è anche a capo dell’Accademia militare qatarina. Ciò significa che la formazione dei quadri militari è selezionata sulla base di scelte politiche e religiose filo-turche. Inoltre la presenza delle forze di sicurezza turche in Qatar rappresenta in modo tangibile la rilevanza dell’influenza politico-militare turca. Si pensi all’infrastruttura militare turca Tariq ibn Ziyad, nella quale è presente il comando della “Qatar-Turkey combined joint Force”.
Le esportazioni di armi del Qatar verso la Turchia sono aumentate in modo vistoso consentendo ad Ankara di arrivare a entrate pari a 335 milioni di dollari, mentre l‘operazione militare turca Fonte di pace, posta in essere nel nord-est della Siria, è stata apertamente sostenuta proprio da Doha, anche per ampliare l’influenza della Fratellanza musulmana.
Per quanto concerne gli investimenti, il Qatar ha erogato, fin dal 2018, 15 miliardi di dollari e ha acquistato una quota del 50% in Bmc, un produttore turco di veicoli corazzati, i cui partner turchi sono noti amici di Erdogan, per produrre l’Altay, il principale carro armato di battaglia di nuova generazione. Ma vi è anche il caso di una società di software militare controllata dallo stato ad Ankara, che ha firmato un accordo di partnership con al-Mesned Holdings in Qatar per una joint venture specializzata in soluzioni di cyber-sicurezza.
Tuttavia uno degli accordi certamente più rilevanti per sanare la grave situazione economica presente in Turchia è quello del 20 maggio grazie al quale la Banca centrale turca ha annunciato di aver triplicato il suo accordo di scambio di valuta con il Qatar.
Per quanto concerne i rapporti tra Libia e il Qatar, Doha ha saputo approfittare delle debolezze politiche sia dell’Unione Europea che dell’Onu. Inoltre il relativo disimpegno americano dal teatro medio orientale – visto che le priorità della amministrazione trumpiana sono per la Cina, l’Indo-pacifico e per la Russia – hanno di fatto arrecato un indubbio vantaggio strategico a Doha.
Ora, proprio approfittando di questa situazione di instabilità, il Qatar ha cercato di sfruttare questa propizia occasione per una politica di maggiore peso e significato a livello geopolitico in Libia. Proprio per questa ragione la presenza militare del Qatar nel conflitto del 2011, a fianco della Nato, fu certamente rilevante non solo per l’uso del suo potere aereo ma anche per l’addestramento dei ribelli libici sia sul territorio libico che a Doha, senza dimenticare naturalmente il ruolo rilevante che le forze speciali qatarine ebbero nell’assalto finale contro Gheddafi.
Caduto il regime di Gheddafi, il Qatar riconobbe come legittima istituzione politica il consiglio nazionale di transizione e contribuì in modo determinante, non solo a livello economico, a rifornire i ribelli delle necessarie risorse energetiche. Un altro strumento di influenza, e insieme di penetrazione in Libia, furono certamente i fratelli Ali e Ismail al-Salabi perseguitati dal regime di Gheddafi. In particolare al-Salabi è certamente uno dei più importanti uomini di religione legato alla Fratellanza musulmana.
Un altro uomo chiave per il Qatar è stato certamente Abd al-Ḥakim Bilhag, considerato sia dalla Cia che dal Dipartimento di Stato americano un pericoloso terrorista in quanto leader del Libyan Islamic Fighting Group. Il suo ruolo politico è stato molto importante sia perché ha coordinato il consiglio militare di Tripoli sia perché è stato uno dei principali responsabili del partito al-Watan, raggruppamento politico di estremo peso all’interno del congresso nazionale generale.
Ritornando all’accordo siglato il 17 agosto il Qatar investirà in modo rilevante per la ricostruzione delle infrastrutture militari di Tripoli. E infatti non è stata casuale la presenza nella delegazione del Qatar di consiglieri e istruttori militari che hanno tenuto incontri con i loro omologhi libici e turchi. Altrettanto significativo, sotto il profilo politico, l’incontro tra Haftar e il direttore dell’intelligence militare egiziana e cioè il generale Khaled Megawer presso la base di Rajma, sita a Bengasi. Un incontro volto a pianificare un eventuale intervento militate egiziano? È certamente una eventualità da considerare.
A tale proposito il sostegno da parte dell’Egitto ad alcune tribù libiche potrebbe svolgere un ruolo significativo. Secondo il capo del consiglio supremo delle tribù in Libia Saleh al-Fendi, come secondo Abdel Salam Bou Harraga Al-Jarari, membro dei clan Al-Ashraf e Al-Murabitin a Tarhuna, a sud di Tripoli, il sostegno egiziano si rileverebbe indispensabile. Proprio Al-Jarari ha sottolineato come il sostegno egiziano sia l’unico modo per porre fine a una straziante guerra civile. Non a caso il maggiore generale Ahmed Al-Mesmari, portavoce dell’Esercito nazionale libico, ha dichiarato che la Turchia si sta mobilitando, proprio come dimostra l’incontro del 17 agosto tra i funzionari turchi e e quello del Qatar, incontro che, secondo Al-Mesmari, suggellerà la presenza permanente della Fratellanza mussulmana in Libia.
Anche secondo Abdelsalam Bohraqa al-Jarrari, un membro anziano di una tribù di Tarhuna, a Sud di Tripoli, diventa necessario da parte dell’Egitto un intervento militare a tutto campo. Per quanto concerne proprio la presenza di Doha in Libia, secondo lo sceicco Adel Al-Faidi, membro del Consiglio supremo delle tribù libiche, l’incontro del 17 agosto coincide con il controllo turco-qatariota sul porto di Al-Khums e la sua trasformazione in una infrastruttura militare per le operazioni militari congiunte di Ankara e Doha in Libia.
D’altronde proprio la presenza di due fregate turche giunte al porto di Khums, a 135 km ad Est di Tripoli, legittima il sospetto che Ankara voglia prendere possesso delle infrastrutture portuali dell’area per trasformarle in infrastrutture militari potendo in questo modo rafforzare la propria proiezione di potenza economica e militare sia nel Mediterraneo orientale che in Nordafrica.
E l’Italia? Fin troppo evidente appare la sua impotenza politica e militare, non solo sullo scacchiere libico. Dopo aver contribuito alla dissoluzione della ex Jugoslavia a vantaggio degli americani, dei tedeschi, dei russi e dei turchi, l’Italia ha contribuito a perdere anche influenza sulla sua ex colonia libica e si trova oggi nella situazione di essere un vaso di coccio tra vasi di ferro come la Turchia, il Qatar, gli Emirati Arabi, l’Egitto.
Priva di qualunque strategia su medio-lungo termine e soprattutto priva di uno sguardo geopolitico disincantato, il nostro Paese non è stato in grado di comprendere l’importanza di conseguire un perimetro difensivo come la Francia o come la Gran Bretagna, perimetro difensivo necessario per respingere eventuali offensive militari.
A maggior ragione il nostro Paese ha rifiutato qualunque tipo di proiezione di potenza regionale come sta invece facendo la Turchia. D’altronde, durante la guerra del 2011, nel contesto della coalizione Nato, l’Italia non aveva forse autorizzato l’uso delle proprie infrastrutture militari proprio per bombardare la Libia di Gheddafi? Eppure nel 2008 l’Italia, grazie all’intesa proprio con Gheddafi, aveva assunto un ruolo di rilievo sullo scacchiere libico con buona pace della Francia (e della Total).
Ma queste scelte scellerate sul piano della politica estera non dipenderanno anche dall’assoluta incapacità da parte dell’Italia a pensare di usare lo strumento militare come strumento legittimo per difendere i propri interessi? Proprio a tale riguardo numerosi analisti italiani hanno più volte sottolineato come tale indisponibilità stia recando vantaggio soltanto alla Turchia e in seconda battuta all’Egitto. Infatti sia la Turchia che l’Egitto ci hanno ormai estromesso dallo scacchiere libico.
Come opportunamente sottolineato da Dario Fabbri su Limes, “Imporsi sulla storia significa lanciarsi nel fuoco, segnalare agli altri un’invalicabile linea rossa, sopportare gli effetti collaterali dell’eventuale offensiva, mettere in conto numerosi momenti di disperazione. Condotta aliena al nostro sentire. Attempata ed economicistica, la popolazione italiana è genuinamente persuasa che la storia sia finita, che non vi sia nulla per cui rischiare tutto, che esista soltanto il tornaconto materiale. Non rinuncerebbe mai alla dolcezza della vita per conquistare una maggiore rilevanza internazionale. Né accetterebbe di crepare in battaglia per aumentare la propria sicurezza – in caso invocherebbe l’impossibile aiuto delle organizzazioni internazionali. Il massimalismo geopolitico è espunto dal discorso pubblico, escluso dai programmi governativi – nell’illusione che la politica estera sia informata dalla convenienza finanziaria. Mentre ogni grande impresa impone sofferenze, restrizioni, dolori. Quanto sperimentano quotidianamente le principali potenze del pianeta – dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Cina alla Turchia”.