La Corte Costituzionale ha reso note le motivazioni che, con una sentenza adottata nel mese di febbraio, hanno disposto l’illegittimità del comma 7 secondo periodo dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, come riformato dalla legge Fornero n. 92/2012, che consentiva al giudice la facoltà di stabilire una sanzione economica per il datore di lavoro, in alternativa al reintegro nel posto di lavoro, nel caso di manifestata infondatezza del licenziamento per motivi economici.
In buona sostanza, la Consulta ritiene eccessivamente arbitraria la facoltà lasciata al giudice, e soprattutto discriminatoria rispetto al dispositivo legislativo che impone il reintegro dei lavoratori per la fattispecie similare dei licenziamenti palesemente infondati per motivi disciplinari.
In via teorica l’impatto della decisione si riflette esclusivamente su quella dei licenziamenti del personale assunto dalle aziende precedentemente alla riforma dell’art. 18 introdotta nel 2015 con il Jobs Act che prevede la forma del risarcimento monetario per i licenziamenti per motivi economici non motivati, limitando il reintegro per i casi legati alla discriminazione per motivi politici, sindacali di opinione, di genere, religiosi… E riduce la facoltà dei giudici limitandone l’ambito di valutazione per i casi richiamati, mettendo fine a un orientamento incerto della Magistratura, e di alcuni pronunciamenti della Corte di Cassazione, sulla materia.
Sul piano pratico, date le motivazioni che fanno riferimento ai principi di uguaglianza rispetto alla legge contenuti nell’analisi art. 3 della Costituzione, è lecito attendere una nuova ondata di interventi della Magistratura rivolti a interpretare il senso della nuova sentenza.
Giova ricordare infatti che a seguito dell’introduzione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, la disciplina dei licenziamenti individuali e del regime sanzionatorio per quelli dichiarati illegittimi, si differenzia non solo per i casi citati, ma anche per le aziende sopra o sotto i 15 dipendenti. Ovvero, come ricordato, per i lavoratori assunti prima o dopo la riforma del Jobs Act del 2015.
Precedenti orientamenti della stessa Corte Costituzionale avevano giustificato la differenza dei regimi in ragione della natura delle piccolissime imprese, e delle implicazioni organizzative e fiduciarie dell’eventuale reintegro. Ferma restando la nullità dei licenziamenti per motivi discriminatori per tutti i lavoratori dipendenti, indifferentemente dalla natura delle imprese e dalla data di assunzione.
Una condizione che in via di fatto introduce significative differenze di trattamento. Altresì vanno considerate le molteplici situazioni che possono determinare un confine molto incerto tra le forme di discriminazione e la manifesta inconsistenza dei motivi economici e disciplinari utilizzati per licenziare il lavoratore, la verifica dell’effettiva possibilità di operare il reintegro per le mutate condizioni per l’impresa o per il venir meno del rapporto di fiducia che per l’esercizio di alcune funzioni assume un valore rilevante. Infatti, la stragrande parte dei contenziosi viene risolta con arbitrati o transazioni economiche tra le parti in causa assistite dalle rispettive rappresentanze associative e sindacali.
E tutto questo, per fortuna, è destinato a continuare evitando l’affollamento dei contenziosi nei tribunali, riducendo l’impatto dei pronunciamenti consolidati a livello di Magistratura a una sorta di rafforzamento degli argomenti messi in campo dalle parti per raggiungere le migliori condizioni per le transazioni economiche.
Resta comunque il peso delle incertezze nella disciplina dei licenziamenti, peraltro aggravate da quelle sulla natura dei rapporti di lavoro, si vedano ad esempio i pronunciamenti difformi della magistratura sulla legittimità della forma delle collaborazioni continuative nei comparti della logistica e delle telecomunicazioni, destinate a generare problemi nella gestione dei rapporti di lavoro, e fabbisogni di nuove regole in ambito legislativo e contrattuale.
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