L’altra sera Rai 3 ha trasmesso uno splendido film sul mitico concerto De André-PFM: diciamo mitico per chi ha qualche anno sulle spalle e che se non riesce proprio a esaltarsi per il Fedez-Pensiero (mumble, mumble, mumble: pensiero?), figuriamoci per il Fedez-gorgheggio. E poi, miracolosamente, senza che il sottoscritto toccasse il telecomando, è tornata all’improvviso Telekabul. Anch’essa mitica ma anch’essa spia della nostra età.
Tanto che ho pensato per un attimo di aver imboccato un tunnel spazio-temporale (con)fondendo la Rai Demo-Pentastellata con Kate & Leopold. E invece no: era tutta roba contemporanea che si dichiarava un’inchiesta sui drammatici fatti accaduti a Genova durante il G8 berlusconiano, fatti di cui ci è stato ammannito un quadro in bianco e nero. O meglio in rosso e nero. Con tanto di interviste a personaggi che nella Milano degli anni ’70 erano più noti come “cacciatori di cattolici” che come “studenti di Medicina”.
Ebbene tra immagini scioccanti, frasi da rabbrividire, camionate di dolore fisico e morale, ricostruzioni più o meno credibili, all’improvviso torna il dibattito sulla globalizzazione, e nel magma delle opinioni ecco uno stranito Carlo Cottarelli che butta là una cifra: la globalizzazione ha consentito a un miliardo di persone di uscire dalla povertà. Da questa cifra e dalla faccia dell’intervistatore che sembra replicare alle parole dell’economista con un “bazzeccole” (per non essere volgari), vorremmo prendere il via per la nostra riflessione.
Un miliardo di persone non sono più povere come lo erano trent’anni fa. A noi pare un miracolo: a voi?
Certo, questo processo lo abbiamo pagato a caro prezzo. Perché la crescita mondiale non è stata tale da permettere che la torta della ricchezza lievitasse abbastanza da mantenere insieme il nostro livello di benessere e da far crescere quello delle popolazioni che fino a ieri erano poco sopra la linea della fame: e che, sia chiaro, anche oggi non sono ancora uscite del tutto da quella situazione.
Questi e altri di tal fatta pensieri mi si accavallavano nella mente leggendo qua e là le dichiarazioni di industriali, politici e sindacalisti in merito alla questione dello sblocco dei licenziamenti e alle notizie delle aziende, soprattutto quelle gestite da multinazionali e fondi finanziari, che rinunciano alla cassa integrazione pur di espellere lavoratori e chiudere poli produttivi. Da anni è noto che il sito della Whirlpool campana è, come dire, in coma; ma sono di qualche giorno fa le notizie relative alla Gianetti Ruote in Brianza, alla Gkn di Campi Bisenzio e non ultimo alla Timken bresciana.
Al contrario di tanta retorica televisiva, però, vogliamo cominciare a dire che le aziende che chiudono non sono tutte multinazionali o proprietà di fondi di investimento, ma che lo stesso fenomeno avviene, nel silenzio e raccogliendo molta meno attenzione da parte dei media, tra le cooperative della logistica (eppure, qualche settimana fa ci si occupava, cioè si ciacolava, solo di queste: sic transit gloria mundi …)? Aziende ciniche (e bare, per citare Saragat)? Certo che sì. Disinteressate alla dimensione sociale del loro esistere? Certo che sì. Colpa della globalizzazione? E qui casca l’asino. Perché delle due l’una: o abbiamo a cuore di star bene solo noi, e quindi abbasso la globalizzazione. Oppure abbiamo a cuore che stiano bene anche gli altri, e allora le cose cambiano.
Certo, potremmo agire secondo veltroniana ricetta: vogliamo questo e quello, e che siano subito e insieme. Ma siccome per i miracoli occorre ancora rivolgersi sempre allo Stesso, il Quale per ora non si occupa ancora di relazioni industriali e di sviluppo economico, ecco che ci tocca decidere. Perché il punto è che la globalizzazione non ha colpito in alto, dove c’è formazione, dove la gente ha competenze (quelle che contano) e titoli (che contano assai meno), ma là in basso, sotto la cintura, dove fa più male e minori sono le difese e i rimedi. Ha colpito infatti tra coloro che per mille e una ragione non sono riusciti a farsi una competenza, a costruirsi un know-how fosse anche solo per potersi andare a cercare un nuovo lavoro. Ha colpito tra coloro che usano di internet solo per i social e poco o nulla sanno di mille altre opportunità. Ha colpito in quella classe operaia che la sinistra ha dimenticato per occuparsi di altri e più urgenti (?) problemi.
Da anni, decenni, parliamo di Formazione continua, di Sistema duale, di percorso invece di posto, ma alla fin fine vogliamo riconoscere a noi stessi, senza barare con la nostra coscienza, che la montagna ha partorito non un topolino ma una pulce? Il reddito di cittadinanza, l’ultimo geniale ritrovato in materia, assai più che soldi buttati dalla finestra secondo un criterio distributivo che nemmeno Cuba (anzi men che mai lì) avrebbero adottato, è stata la dimostrazione che il nostro gruppo dirigente non sa di cosa parla quando si occupa di questi temi. Non sono stati soldi gettati al vento lo ripetiamo. ma, ed è infinitamente peggio perché Kronos non perdona, tempo gettato nella spazzatura.
I posti di lavoro persi in queste settimane sono il frutto, lo si sappia, dell’inefficienza governativa di questi anni e della pochezza culturale e organizzativa di troppi “esperti”. Se tale insipienza ci sembra che vada da sé per tanti esponenti di partito (con le dovute eccezioni, ovviamente, a partire da chi ha dovuto sporcarsi le mani con le esigenze delle realtà produttive), troviamo invece bizzarro che il tema non sia alla attenzione di Confindustria, ma, e ci duole dirlo, silenzi e reticenze ci fanno sospettare che neppure nel sindacato le idee al riguardo siano troppo chiare.
Lasciamo stare i proclami e le dichiarazioni di intento, i “si dovrebbe”, i “sarebbe opportuno”, i “si faccia”, i “noi avevamo detto”, e veniamo al dunque: come ci comportiamo con il sistema duale per la formazione? Lo vogliamo mettere in cantiere, almeno laddove si puote o apriamo un bel dibattito (possibilmente ideologico così da non uscirne più) sul tema “le ore di formazione in azienda sono scuola o sono lavoro non regolare”? Continuiamo a sfornare laureati in Scienze della comunicazione o puntiamo sugli Istituti superiori? Vogliamo affrontare i silenzi e le ritrosie culturali di chi, anche tra qualche sindacato, continua a pensare che l’intelligenza umana si misuri in libri letti, tranne poi scoprire che le nostre imprese (e quindi i posti di lavoro che ne dipendono) sono state il frutto di intuizioni di geni che non sapevano chi era Giambattista Vico, ma avevano appreso a osservare e quindi a pensare?
Non ci inquietano, insomma, le scelte dei fondi e delle multinazionali: li abbiamo accolti con applausi e peana quanto arrivarono, sapevamo chi erano e non possiamo impancarci ora a anime belle. Ci inquieta invece che la difesa del posto di lavoro passi sempre (e ancora) dal blocco dei cancelli e dalle barricate in città invece che dall’identificazione di percorsi individuali e dalle riconversioni di siti. Per una legge fisica ogni cambiamento richiede investimenti in energia, una parte della quale si perde: sappiamo, ad esempio, che formare per ricollocare i 107 della Timken non sarà indolore o senza costo. Ma non vediamo altra soluzione, sempre che si sappia di cosa si parla quando si dice che la persona è al centro del lavoro.
Certo, finché le aziende non chiudono e i lavoratori non sono licenziati, imprenditori e sindacati ne avranno reciproci vantaggi: gli uni possono sempre attingere alle tasche di Pantalone e gli altri contare i cassintegrati, anche a zero ore, tra gli iscritti. Ma stare fermi, con la testa nella sabbia e il retrotreno per aria non ha mai evitato gli “incidenti”.
Vediamo almeno ora di non ripetere i soliti errori.
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