La recente riforma “Cartabia” ha introdotto numerose e svariate novità sia nel processo penale, sia in quello civile. Tra queste ce n’è una che travalica anche questi due ambiti. Si tratta della modifica dell’articolo 445 del Codice di Procedura Penale avente a oggetto gli effetti della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (cosiddetto patteggiamento).
Prima della riforma, il patteggiamento poteva avere una pesante incidenza sul rapporto di lavoro. Con la sentenza di patteggiamento l’imputato non nega il fatto, non nega la propria responsabilità rispetto al reato contestatogli e accetta una determinata condanna: il che poteva avere rilevanti conseguenze sul piano disciplinare ove il fatto fosse stato inerente all’attività lavorativa. Inoltre, l’art. 445 c.p.p. nel testo previgente alla riforma “Cartabia” stabiliva che la sentenza di patteggiamento era “equiparata a una pronuncia di condanna” e diversi contratti collettivi considerano la sentenza penale di condanna passata in giudicato come una circostanza idonea a legittimare il licenziamento. Ne conseguiva che una sentenza di patteggiamento poteva spesso “spianare” la strada al licenziamento.
La riforma Cartabia ha però modificato l’art. 445 che ora stabilisce: “La sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2 [e cioè quella di patteggiamento], anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna“.
L’intenzione del Legislatore è evidentemente quella di restringere, se non addirittura eliminare, gli effetti della sentenza di patteggiamento al di fuori dell’ambito penale.
Oggi, la sentenza di patteggiamento, alla luce della riforma, deve essere considerata equiparabile a una vera e propria pronuncia di condanna solo ed esclusivamente nell’ambito penalistico sostanziale e processuale, mentre perde tale qualificazione al di fuori di esso. Ne deriva che il datore di lavoro, nell’ambito di un procedimento disciplinare, non potendo più considerare la sentenza di patteggiamento come “equiparata a una pronuncia di condanna“, quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso non potrà più far riferimento a quanto “accertato” dalla sentenza di patteggiamento per avviare un’azione disciplinare nei confronti del lavoratore.
Tuttavia, pur essendo vero che la novella legislativa è obiettivamente diretta a limitare gli effetti extra-penali della sentenza di applicazione della pena su richiesta e, in particolare, la rilevanza probatoria del fatto materiale in esso delineato, resta però pienamente valutabile dal datore di lavoro il materiale probatorio acquisito nelle indagini preliminari e posto a fondamento della non assoluzione dell’imputato (valutazione che, com’è noto, è prodromica alla pronuncia di una sentenza ex art. 444 c.p.p.).
Difatti, l’art. 445, comma 1 bis, del Codice di Procedura Penale ha ad oggetto esclusivamente l’efficacia della sentenza ex art. 444 c.p.p., senza che da tale norma possa desumersi un effetto estensivo nei confronti del materiale probatorio versato nel procedimento penale. La conclusione che precede è stata recentemente avallata da una sentenza della Corte dei Conti (sezione giurisdizionale per la Regione Piemonte) che ha osservato come il Legislatore con la riforma dell’art. 445 c.p.p. abbia “inteso ridurre l’efficacia extra-penale della sentenza di patteggiamento senza, tuttavia, che tale scelta possa estendersi fino all’irrilevanza del materiale probatorio raccolto: un conto, infatti, è negare che la sentenza ex art. 444 c.p.p. possa costituire, essa stessa, accertamento probatorio in altro giudizio; ben altro sarebbe impedire ad un altro giudicante un’autonoma valutazione del materiale probatorio acquisito nelle indagini preliminari, specie quando questa valutazione ha finalità e parametri completamente differenti, con esclusione della violazione del principio del ne bis in idem“.
Dunque: la riforma Cartabia ha eliminato gli automatismi che consentivano di licenziare il dipendente a fronte di una sentenza di patteggiamento, ma non ha escluso la possibilità per il datore di lavoro di utilizzare quanto emerso nell’ambito del giudizio penale culminato con il patteggiamento per avviare un procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente.
Per scrupolo, va segnalato che quanto precede non vale solo per i comportamenti tenuti sul posto di lavoro, ma anche per le condotte extralavorative “che abbiano un riflesso anche solo potenziale, ma comunque oggettivo, sulla funzionalità del rapporto di lavoro, in termini di compromissione dell’aspettativa datoriale circa un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa in relazione alle specifiche mansioni svolte dal dipendente licenziato” (Cass. 24 luglio 2023, n. 22077).
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