Dalla Corte Costituzionale è arrivata una nuova bocciatura della disciplina in materia di licenziamento prevista dal decreto legislativo n. 23/2015 (cosiddetto Jobs Act) per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 con il contratto di lavoro a “tutele crescenti”. Con la precedente sentenza n. 194 del 2018, la Corte Costituzionale aveva scrutinato il caso del licenziamento intimato senza giusta causa o senza giustificato motivo soggettivo o oggettivo e aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo il meccanismo di determinazione dell’indennità risarcitoria parametrato alla sola anzianità di servizio (comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto) previsto dall’art. 3 del d.lgs del 2015. Con la recente sentenza n. 150 del 16/07/2020 la Corte si è pronunciata invece sul diverso caso del licenziamento viziato dal punto di vista formale o procedurale disciplinato dall’art. 4 del d.lgs n. 23/2015.



La norma prevedeva che in caso di licenziamento affetto da vizi formali e/o procedurali (ad esempio, in caso di licenziamento intimato con violazione del requisito della motivazione o con violazione della procedura di contestazione disciplinare prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori) “il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità”.



La questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto legislativo n. 23/2015 era stata sollevata dai Tribunali di Bari e di Roma. In particolare, il Tribunale di Bari aveva escluso con sentenza non definitiva la nullità e l’illegittimità sostanziale del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore e aveva riscontrato soltanto alcuni vizi formali (più precisamente, la società aveva omesso di contestare uno degli addebiti poi sanzionati con il licenziamento e aveva violato la norma del contratto collettivo che impone, al momento della contestazione degli addebiti, di comunicare per iscritto al lavoratore il termine entro il quale presentare le giustificazioni). Secondo il Tribunale, la modesta anzianità di servizio del lavoratore avrebbe implicato, sulla scorta di quanto previsto dall’art. 4 del d. lgs n. 23/2015, il riconoscimento di un’indennità non superiore alla soglia minima delle due mensilità, laddove invece la declaratoria di illegittimità costituzionale avrebbe consentito di valutare “altri fattori” idonei ad aumentare la misura prestabilita dalla legge, e segnatamente “le notevolissime dimensioni dell’impresa convenuta in termini di fatturato e l’elevatissimo numero di dipendenti occupati (nell’ordine di migliaia) nonché la non trascurabile entità della violazione commessa dalla società”.



Anche il Tribunale di Roma, pur rilevandone la legittimità sul piano sostanziale, aveva riscontrato la sussistenza di vizi formali del licenziamento in quanto il datore di lavoro aveva omesso di considerare le giustificazioni del dipendente sull’erroneo presupposto che le stesse fossero tardive. Secondo il Tribunale, il meccanismo di calcolo dell’indennità ancorato alla sola anzianità di servizio non sarebbe costituzionalmente legittimo in quanto “sanziona in modo uguale violazioni non solo produttive di danni differenti ma di gravità che possono essere, a loro volta, del tutto differenti e, soprattutto nei casi di anzianità di servizio assai modesta, non rappresenterebbe una adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente (o comunque in violazione di legge) e neppure garantirebbe un risarcimento adeguato e personalizzato”.

Le questioni sollevate da entrambi i Tribunali di Bari e di Roma sono state ritenute fondate dalla Corte Costituzionale, con riferimento agli art. 3, 4 primo comma e 35, primo comma, della Costituzione. Richiamando la precedente pronuncia del 2018 la Corte Costituzionale ha rilevato, in particolare, che “l’anzianità di servizio, svincolata da ogni criterio correttivo, è inidonea a esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore e non presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha inteso sanzionare. Tale disvalore non può esaurirsi nel mero calcolo aritmetico della anzianità di servizio”. Di qui la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs n. 23 del 2015, limitatamente all’inciso “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

La Corte ha comunque chiarito espressamente che, nel rispetto dei limiti minimo e massimo oggi fissati dal legislatore, il giudice, nella determinazione dell’indennità, dovrà tener conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, che rappresenta “la base di partenza della valutazione”. Solo “in chiave correttiva”, con apprezzamento congruamente motivato, il giudice potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione dell’indennità dovuta al lavoratore “aderente alle particolarità del caso concreto”. In particolare, potranno venire in rilievo “la gravità” della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro”, e anche “il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, richiamati dall’art. 8 della legge n. 604/1966, previsione applicabile ai vizi formali nell’ambito della tutela obbligatoria ridefinita dalla stessa legge n. 92 del 2012” (cosiddetta Legge Fornero).

Resta fermo invece, almeno per ora, il limite minimo (non inferiore a due mensilità di retribuzione) e massimo (non superiore a dodici mensilità) previsto dall’art. 4 del d.lgs n. 23/2015. La Corte Costituzionale ha ritenuto infatti di non prendere in considerazione, in quanto “travalica e tende ad ampliare inutilmente il tema del decidere”, la questione di illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 4 del d.lgs n. 23/2015 nella parte in cui fissa l’indennità nell’ammontare massimo di dodici mensilità, che era stata sollevata in giudizio dal lavoratore.

Permane quindi la differenza di trattamento tra vizi formali e vizi sostanziali del licenziamento. È una differenza che si aggiunge alle tante, troppe, differenti tutele previste dalla legge in materia di licenziamento. Anche per questo la Corte Costituzionale ha opportunamente osservato che “spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari”.

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