Le differenze tra licenziamento individuale e licenziamento collettivo sono molteplici e riguardano tanto le motivazioni alla base del recesso quanto le procedure da seguire. Quest’ultime, nel caso del licenziamento collettivo sono ben più articolate e complesse e prevedono, tra le altre, una comunicazione di avvio ai Sindacati e una successiva fase di esame congiunto (della durata massima di 75 giorni) che vede coinvolte le Organizzazioni Sindacali e gli attori istituzionali. Ma quando scatta per il datore di lavoro l’obbligo di attivare la procedura di licenziamento collettivo?
È l’art. 24 della L. 223/1991 a chiarirlo, prevedendo che tale procedura si applichi “alle imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttiva nell’ambito del territorio della stessa provincia”.
Per capire se si ricada o meno in ipotesi di licenziamento collettivo è quindi cruciale comprendere quando scatta la soglia dei cinque licenziamenti nell’arco di centoventi giorni prevista dalla legge. Sul punto, la Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 15118 del 31 maggio scorso ha statuito che “nel numero minimo di cinque licenziamenti, ivi considerato come sufficiente ad integrare l’ipotesi del licenziamento collettivo, non possono includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all’iniziativa del datore di lavoro”. Sulla base di una condivisibile lettura delle norme più aderente al dato letterale, la Corte ha infatti osservato che “l’espressione ‘intenda licenziare’ di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 24 è una chiara manifestazione della volontà di recesso, pur necessariamente ancorata al fatto che i licenziamenti non possono essere intimati se non successivamente all’iter procedimentale di legge, mentre cosa ben diversa è l’espressione ‘deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo’ ai sensi della novellata L. n. 604 del 1966, art. 7, che è invece imposta al fine di intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla DTL, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento”.
Dunque: per la Corte di Cassazione le dimissioni rassegnate dal lavoratore a fronte di una modifica delle sue condizioni di lavoro operata dall’azienda, come pure le cessazioni del rapporto di lavoro frutto di un accordo tra lavoratore e datore di lavoro sollecitato da quest’ultimo, non possono computarsi ai fine della soglia che fa scattare l’obbligo di avviare una procedura di licenziamento collettivo. Si tratta di una decisione che si pone in netta discontinuità rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale.
Al riguardo va infatti segnalato che la stessa Corte di Cassazione, l’anno scorso, con la sentenza n. 15401 del 20 luglio 2020 aveva ritenuto che “alla luce di una corretta interpretazione dell’art. 1, paragrafo 1, comma 1, lettera a) della Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 (concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), rientra nella nozione di ‘licenziamento’ il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta dal lavoratore medesimo (Corte di Giustizia UE 11 novembre 2015 in causa C-422/14, p.ti da 50 a 54)”. La Suprema Corte aveva pertanto concluso stabilendo che “una tale interpretazione, conforme alla citata giurisprudenza della Corte di Giustizia, comporta il superamento della precedente” giurisprudenza secondo cui “nel numero minimo di cinque licenziamenti, ivi considerato come sufficiente ad integrare l’ipotesi del licenziamento collettivo, non potessero includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all’iniziativa del datore di lavoro (Cass. 6 novembre 2001, n. 13714; Cass. 22 gennaio 2007, n. 1334) dovendosi intendere il termine licenziamento in senso tecnico, senza potere ad esso parificare qualunque altro tipo di cessazione del rapporto determinata (anche o soltanto) da una scelta del lavoratore, come nelle ipotesi di dimissioni, risoluzioni concordate, o prepensionamenti, anche ove tali forme di cessazione del rapporto fossero riconducibili alla medesima operazione di riduzione delle eccedenze della forza lavoro giustificante il ricorso ai licenziamenti”.
Come si vede, l’anno scorso la Corte Suprema aveva assunto una posizione del tutto opposta a quella ora espressa nella sentenza n. 15118/2021.
Sebbene l’orientamento assunto da ultimo dalla Corte di Cassazione sia quello più logico e coerente con le norme richiamate, resta il fatto che la segnalata oscillazione giurisprudenziale non giova alla certezza del diritto, il che penalizza sia i lavoratori (si pensi alle cause che sono state intentante sulla base di principio affermato dalla Corte Suprema che ora è venuto meno), sia i datori di lavoro.
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