In data 26 febbraio 2021 il Tribunale di Roma si è reso protagonista dell’attuale (quanto dibattuto) tema del divieto di licenziamento, dichiarando illegittimo il licenziamento di un dirigente avvenuto durante il periodo di blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo; e ciò sul presupposto che tale divieto si debba applicare anche alla categoria dei dirigenti (il che non era affatto detto).
Dato il clamore così sollevato, è però passata “inosservata” un’altra pronuncia del Tribunale capitolino che, a nostro avviso, merita di essere segnalata, stanti i potenziali effetti dirompenti che tale pronuncia potrebbe avere nel mondo delle piccole imprese (che a oggi in Italia sono oltre 120.000). Ci riferiamo, in particolare, alla pronuncia del 24 febbraio 2021 relativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato da un datore di lavoro privo dei requisiti di cui all’art. 18, commi 8 e 9, L. n. 300/1970, per il quale trova quindi applicazione la tutela c.d. obbligatoria di cui all’art. 9 del D.lgs. 23/2015 (meglio noto come Jobs Act). Questa norma stabilisce che in caso di licenziamento intimato illegittimamente facendo leva su ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, il lavoratore non ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, ma “solo” a un indennizzo non inferiore alle tre mensilità e che “non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità“.
Ebbene, nell’esaminare il caso sottoposto alla sua attenzione, il Tribunale di Roma ha sollevato una questione di legittimità costituzionale della norma che sanziona il licenziamento illegittimamente intimato per giustificato motivo oggettivo dalle piccole imprese, ritenendo che l’attuale sistema di tutele disegnato dal Jobs Act prevederebbe una tutela inadeguata perché pressoché uniforme, a discapito quindi della doverosa valorizzazione del caso concreto, e che non darebbe affatto luogo al pagamento di “un’indennità «adeguata e personalizzata», ancorché forfettizzata“.
Nell’esporre il proprio ragionamento, il Tribunale ha richiamato la nota pronuncia della Corte costituzionale (n. 194/2018) che ha dichiarato incostituzionale il meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 3 d.lgs. 23/2015 per i licenziamenti intimati da imprese con più di 15 dipendenti (segnaliamo che anche in quel caso, la questione di incostituzionalità era stata sollevata dal Tribunale di Roma). In particolare, il Tribunale capitolino, con la predetta Ordinanza del 24 febbraio 2021 ha affermato che la disposizione che sanziona i licenziamenti intimati dalle imprese con meno di 15 addetti “risulta palesemente viziata per incostituzionalità nella parte in cui determina un limite massimo del tutto inadeguato e per nulla dissuasivo in caso di licenziamento ingiustificato comminato da un datore di lavoro che non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970“.
Il Tribunale di Roma ha osservato altresì che la norma contenuta nel Jobs Act non riproduce (se non in parte), le disposizioni contenute nell’art. 8 della 1. n. 604/1966 (che fino al 2015 valevano per tutte le piccole imprese). È vero, ha rilevato il Tribunale, che anche la disciplina previgente sanzionava l’illegittimità del licenziamento con il pagamento di un’indennità variabile fra 2,5 e un massimo di 6 mensilità, ma quella indennità poteva essere graduata dal Giudice “avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti” e poteva anche essere oggetto di una maggiorazione fino a 10 mensilità nel caso di lavoratore con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il dipendente con anzianità superiore ai venti anni (qualora il datore di lavoro avesse occupato complessivamente tra i 15 e i 60 dipendenti, distribuiti in unità produttive e ambiti comunali aventi ciascuno meno di 15 dipendenti).
Nella sostanza, secondo il Giudice di Roma, l’art. 9 proprio perché sacrifica “l’apprezzamento delle particolarità del caso concreto” non garantisce un’equilibrata compensazione del risarcimento e non è idoneo a correggere il disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro, dissuadendo la parte più forte, ovvero il datore di lavoro, anche se “piccola impresa”, dall’adottare un licenziamento ingiustificato che gli costerebbe un’indennità ritenuta esigua.
Non ci resta che attendere il responso della Corte Costituzionale, confidando che quest’ultima tenga adeguatamente conto di tutte le delicate esigenze “in giuoco”: sia quelle dei dipendenti a un ristoro “adeguato e personalizzato”, sia quelle dei piccoli datori di lavoro (che spesso non sono dotati di grandi risorse economiche e che ora si trovano anche a operare in un contesto particolarmente sfavorevole).