Martedì è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, dopo varie bozze circolate proprio sul nodo dei licenziamenti, l’ulteriore Decreto (D.L. 73/2021, c.d. Sostegni bis) che vieta ai datori di lavoro che presentino domanda di integrazione salariale i licenziamenti collettivi e per giustificato motivo oggettivo per la durata del periodo di cassa integrazione e fino alla fine dell’anno.



Il Decreto si aggiunge ai numerosi provvedimenti emergenziali approvati dal marzo 2020 che, com’era prevedibile, stanno arrivando al vaglio dell’autorità giudiziaria; e la magistratura sta fornendo le prime indicazioni che confermano la mancanza di chiarezza di varie norme in materia di lavoro – e non solo – segnalata già da vari commentatori, anche su questa Testata.



Due aspetti emblematici, tra i tanti che si potrebbero segnalare, riguardano l’applicabilità del “blocco dei licenziamenti” ai dirigenti e la sospensione del termine per impugnare stragiudizialmente i licenziamenti.

Sotto il primo aspetto si segnalano le prime due decisioni, entrambe rese da giudici del Tribunale del lavoro di Roma, di segno diametralmente opposto.

Con una prima ordinanza del 26.2.2021 il Giudice del lavoro, dott. Dario Conte, ha ritenuto che le disposizioni in materia di “blocco dei licenziamenti” “debbano ritenersi applicabili anche ai dirigenti“, sostanzialmente, per due ordini di ragioni.



In primo luogo, perché, secondo il Tribunale, lo scopo del divieto di licenziamento sarebbe quello di evitare provvisoriamente “che le pressoché generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata di posti di lavoro” e tale esigenza è comune ai dirigenti che anzi possono essere considerati più esposti a tale rischio, stante la maggiore “elasticità” della disciplina in materia di licenziamento. Questa considerazione porrebbe, secondo il Giudice, un problema di ragionevolezza dell’esclusione dei dirigenti alla luce del principio di uguaglianza sancito dall’art 3 della Costituzione, tenuto conto che essi sono, invece, pacificamente inclusi nel divieto dei licenziamenti collettivi riguardanti oltre 4 lavoratori.

In secondo luogo, il Tribunale ha ritenuto che il richiamo del “blocco” ai licenziamenti di cui all’art. 3 L. 604/66 non avrebbe lo scopo di “delimitare l’ambito soggettivo di applicazione del divieto“, ma di identificare il “tipo” di recesso vietato, ovvero quello determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di esso” che, secondo il Giudice, caratterizzano anche la “giustificatezza oggettiva” del licenziamento del dirigente.

Dopo poche settimane, con sentenza n. 3605 del 19.4.2021, il dott. Massimo Pagliarini del medesimo Tribunale di Roma ha, invece, ritenuto che “il dato letterale della disposizione, in uno con la filosofia che la sorregge, non consente di ritenere che la figura del dirigente possa essere ricompresa nel blocco“.

In particolare, il Giudice ha rilevato, anzitutto, che la norma in materia di divieto dei licenziamenti rinvia all’art. 3 della legge n. 604/66, disposizione che pacificamente non si applica ai dirigenti, sia per espressa previsione normativa – art. 10 L. 604/66 -, sia per consolidato principio giurisprudenziale (per tutte, Cass. 2.10.2018 n. 23894 e Cass. 26.10.2018 n. 27199).

Ciò posto, secondo il Giudice, il dato letterale, e cioè l’esclusione della figura del dirigente dal blocco dei licenziamenti, risulterebbe coerente con lo spirito che sorregge l’eccezionale previsione limitativa dei recessi durante la pandemia.

Il blocco, infatti, è stato accompagnato da una possibilità generalizzata per le aziende di ricorrere agli ammortizzatori sociali, con la conseguenza che la cassa integrazione ha consentito di “tamponare” le perdite attraverso la riduzione del costo del lavoro, permettendo la tutela occupazionale dei lavoratori. Ai dirigenti, tuttavia, non è stato esteso l’accesso agli ammortizzatori sociali per il che, nell’ipotesi in cui venisse esteso il blocco dei licenziamenti anche ai medesimi, il costo della sospensione resterebbe integralmente a carico del datore di lavoro; e ciò determinerebbe un profilo di lesione del diritto di libertà economica sancito dall’art. 41 della Costituzione.

Va peraltro segnalato che, sul punto specifico, un autorevole giurista, ovvero il dott. Giuseppe Bronzini, Presidente della Sezione lavoro della Corte di Cassazione, ha ritenuto che le norme sul blocco sospendano temporaneamente l’esercizio del potere del datore di recedere per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 L. n. 604/66, “in radice inapplicabile ai dirigenti per l’art. 10 del medesimo testo di legge per cui non è possibile la sospensione temporanea di un potere che non è mai esistito“.

La questione rimane, evidentemente, ancora aperta, anche perché il Legislatore si è ben guardato dal chiarire medio tempore il dubbio interpretativo segnalato fin da subito da vari commentatori, nonostante abbia avuto a disposizione ben sei provvedimenti successivi per precisare la portata della disposizione. Di qui i discordi arresti giurisprudenziali segnalati.

Un secondo tema di grande interesse è costituito dalla sentenza del Tribunale di Milano (dott.ssa Chiara Colosimo) del 14.10.2020, che ha ritenuto che la sospensione dei “termini procedurali” prevista dall’art. 83 D.L. 18/2020, a seguito dello scoppio della pandemia, riguardi sia il termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, sia quello di 180 giorni per l’impugnazione giudiziale.

Com’è noto, la norma citata ha previsto la sospensione dei “termini stabiliti … per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali” dal 9 marzo al 15 aprile 2020 (termine poi prorogato sino all’11 maggio 2020).

In materia di impugnazione dei licenziamenti, l’art. 6 della L. n. 604/1966 stabilisce che il licenziamento debba essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, e che tale impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso giudiziale. Orbene, se il termine di 180 giorni è da considerare senza dubbio sospeso alla luce della normativa emergenziale in quanto correlato al compimento di un atto processuale, il termine di 60 giorni ha natura sicuramente “stragiudiziale” per il che, secondo una rigida interpretazione letterale della norma, non dovrebbe essere ricompreso nei “termini procedurali” sospesi.

Tuttavia, secondo il Tribunale di Milano, da un lato i due termini di impugnazione debbono essere considerati “intrinsecamente correlati“, in quanto la violazione del primo rende vano il rispetto del secondo e la mancanza del secondo rende inefficace il primo dando vita così a “un’unica fattispecie impugnatoria a formazione progressiva“; e, dall’altro, una rigida interpretazione letterale della norma sembra contrastare con la necessità di assicurare il pieno accesso alla tutela giurisdizionale nel peculiare contesto dell’emergenza epidemiologica. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che, in un contesto connotato dall’assoluta paralisi di tutte le attività non essenziali e non funzionali alla tutela del primario diritto della salute, non si possa dar luogo all’interpretazione restrittiva di una disposizione che avrebbe l’effetto di impedire il ricorso alla tutela giurisdizionale dei lavoratori licenziati pochi giorni prima della pandemia e del “blocco” dei licenziamenti.

Per questi motivi, secondo il Tribunale, la sospensione dei termini disposta dall’art. 83 D.L. 18/2020 deve applicarsi a entrambi i termini previsti per l’impugnazione del licenziamento.

Come appare evidente, se la legislazione emergenziale si è dimostrata alquanto lacunosa e disorganica – e la crisi pandemica può giustificare tali carenze solo in parte – è ora rimesso alla magistratura il compito delicato e cruciale di ricercare le soluzioni interpretative più ragionevoli ed equilibrate nel rispetto dei dati testuali e di tutti i fattori in gioco; cercando, nel contempo, di assicurare il più possibile il canone sempre più problematico della certezza del diritto.

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