Qualche giorno fa, il co-fondatore e Ad di Airbnb, Brian Chesky ha inviato un messaggio a tutti i dipendenti Airbnb nel mondo. La lettera è uscita in seguito alle voci sul crollo della valutazione, poi confermate dall’azienda, e alla riduzione di oltre il 50% del fatturato rispetto al 2019. Nella lettera, Chesky annuncia che dei 7.500 dipendenti (chiamati “teammate”), circa 1.900 saranno licenziati, intorno al 25% della forza lavoro.



La lettera dice molte cose, tra cui “due dure verità”: (1) non sappiamo esattamente quando si ricomincerà a viaggiare; (2) quando i viaggi ritorneranno, avranno un aspetto molto diverso.

Nella lettera si annunciano diverse conseguenze per il business di Airbnb, tra cui una revisione di focus (“torniamo alle nostre radici, torniamo alle basi, a ciò che è veramente speciale di Airbnb – persone di tutti i giorni che ospitano nelle loro case e offrono esperienze”) con conseguente riduzione degli investimenti. Ma soprattutto la lettera enuncia dei principi di considerazione verso coloro che lasceranno l’azienda (attenzione e comunicazione) e poi li declina in una serie di misure: piani di liquidazione, stock options, supporto socio-sanitario e – soprattutto – forme di supporto alla ricerca del lavoro successivo (formazione, la possibilità di tenere con sé il portatile dell’azienda, disponibilità di un supporto di placement da parte di Airbnb, assistenza nella ricerca del lavoro creando un portale ad hoc dove le altre aziende possono vedere chi sono le persone che lasciano Airbnb e contattarle). Tutto questo con il costante richiamo ai manager a operare comunicazioni attente, personali e tempestive alle persone oggetto di questi tagli.



La lettera ha suscitato un grande interesse. Anche noi, nel nostro piccolo, l’abbiamo condivisa con studenti e colleghi e con manager e amici. Al di là della possibile – e realistica – critica alla dimensione retorica del messaggio, ci sono altri aspetti che emergono. Siamo stati noi stessi sorpresi dai commenti e dalle domande che ne sono sorte. Qui proviamo a raccoglierne alcune, partendo da quella centrale: perché questa lettera ci colpisce così tanto?

Una prima ragione è legata alla rilevanza del fenomeno. Un gigante come Airbnb, celebrato come l’esempio dell’impresa del futuro, pioniere della sharing economy, capace di essere dirompente (“disruptive”) affrontando e ridefinendo barriere economiche e regolatorie, di catturare fette di mercati distanti dal proprio o mai esistiti prima, un esempio di “unicorno” (ovvero un’azienda con una valutazione superiore al miliardo di dollari) ora azzoppato e con una rapidità impensabile: anche se sappiamo che fa parte del gioco, ci stupisce. Da un lato, questo sembra mettere in scacco una certa idea di “tech giant”: possono soffrire a loro volta, anzi più di altri perché risentono di shock non tipici e già noti all’industria high tech. È giunto il momento di riconsiderare una certa mitologia?



A ulteriore suffragio dell’urgenza di questa domanda, anche la ricerca accademica non ha mancato di osservare e – almeno inizialmente – spiegare il fenomeno della diminuzione delle high-tech start-up, come ricordato da un recente articolo del Wall Street Journal. Tra le letture principali vi sono: il ritorno all’imprenditorialità “lifestyle” senza patemi per exit (cioè vendite dell’impresa in borsa o a partner industriali) con multipli esagerati; diversi problemi regolatori; la vivacità delle grandi imprese sempre meno in balia della propria inerzia; mancanza di adeguata formazione imprenditoriale; ma soprattutto condizioni di lavoro della “gig economy” che isolano e poco favoriscono networking e creatività fra colleghi – tipici fattori alla base di tante start-up di successo, nate come costola di organizzazioni che le hanno “incubate”. Quanti di questi fenomeni saranno acuiti dall’emergenza pandemica? Sarà capace la cultura imprenditoriale, specialmente quella dei “garage”, di trovare nuove strade?

Un secondo tema è legato alla capacità di focus. Per alcuni settori, come il turismo, quello attuale è davvero uno shock senza pari e inimmaginabile. Dice Chesky: “Come ho imparato nelle ultime 8 settimane, una crisi porta chiarezza rispetto a ciò che è veramente importante. Anche se stiamo attraversando una tempesta, alcune cose mi sono più chiare ora di quanto lo siano mai state.” La vicenda di Airbnb ci interessa anche perché in qualche modo è un outlier, traccia qualcosa di nuovo, anche nel modo di affrontare la crisi. A differenza di quanto mostra un video simpatico, girato recentemente in rete, che mostra l’omologazione e la standardizzazione di tantissime aziende (non piccole) nel riportare il proprio “cambio” di visione e reazione al Covid. Ebbene, quante volte abbiamo sentito dire, dal 2009 a oggi, che la crisi è opportunità? Ma quanti sono – sinceramente – in grado di mettere a fuoco chiaramente una revisione delle priorità? Quanti lo stanno davvero facendo e non si limitano ad atti imitativi di ciò che altri, individualmente o collettivamente, stanno indicando? E, soprattutto, come si fa a fare questo lavoro?

Un terzo tema riguarda la gestione delle persone, del proprio capitale umano, perché queste sono uno dei più grandi investimenti di una (ex)start-up nel mondo della tecnologia e dell’innovazione.

AirBed and Breakfast, poi Airbnb, nasce dalla volontà di permettere di dormire con pochi dollari su materassi gonfiabili nell’appartamento di altre persone in giro per gli Stati Uniti. I fondatori hanno fatto leva sulla loro genialità e determinazione per autofinanziarsi i primi passi, vendendo scatole di cereali personalizzate (gli “Obama O’s” e i “Cap’n McCain’s”) durante la campagna per le presidenziali Usa del 2008.

Questa trovata è valsa a Chesky & Co. il tributo pubblico di uno dei più famosi investitori americani che, non avendo investito nella neonata azienda perché non credeva fosse un business promettente, ha deciso di tenere nella sala riunioni della sua sede una scatola di quei cereali, per ricordarsi che si investe innanzitutto sulle capacità delle persone. Questo è un punto che Brian Chesky e il suo management hanno evidentemente molto chiaro: le persone che vanno via non sono necessariamente quelle meno qualificate, bensì quelle che non lavorano nelle aree su cui l’azienda deve focalizzarsi nel prossimo futuro, ma hanno comunque contribuito a costruire l’azienda così com’è.

La lettera, nel suo essere pubblica, è anche un forte messaggio a chi – per ora – rimane. La tempesta potrebbe non essere finita e comunque non è ancora chiaro come l’industria del turismo si riconfigurerà. Chi rimane sa che è dentro a un progetto e sa anche che coloro che lasciano Airbnb non vengono abbandonati al loro destino.

Che le persone “siano al centro” sembrerebbe un’ovvietà, sentita mille volte. Quale azienda dichiarerebbe che le persone non sono centrali? Eppure la lettera ci colpisce e pensiamo non si possa derubricarla a un modo geniale per trasformare una situazione oggettivamente negativa in opportunità di marketing.

Forse in Italia non siamo abituati a sentire parlare di tagli e licenziamenti in questo modo? Il lavoro è un diritto e perderlo quasi un tabù e le crisi aziendali con migliaia di dipendenti coinvolti diventano tavoli negoziali per ragionare di ammortizzatori sociali. In ogni caso, niente a cui di solito si voglia dare troppa pubblicità. Invece questa lettera pone, nel modo in cui tratta le persone, il tema del fare impresa per creare valore. E questa è un’impresa (in entrambi i sensi) per compiere la quale si propone alle persone di condividerne lo scopo e per questo quando vengono licenziate si tiene la porta socchiusa, si continua ad affermare un legame che diventa anche materiale (l’offerta di quote dell’azienda).

È possibile che uno dei giganti dell’innovazione di questi anni, nella crisi, ci mostri che si può innovare anche il modo di licenziare? Sono domande aperte, le abbiamo raccolte qui perché ci piacerebbe non andassero perse e aprissero un dialogo.

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