Fino a che punto il dipendente può criticare il proprio datore di lavoro senza correre il rischio di essere licenziato? Quando lo sfogo del dipendente nei confronti del capo costituisce legittimo esercizio del diritto di critica e quando invece configura una lesione della reputazione del datore di lavoro e degli obblighi di fedeltà e collaborazione che incombono sul lavoratore? Sull’argomento è tornata a pronunziarsi la Cassazione con la recente sentenza n. 31359 del 3 dicembre 2019, confermando la sentenza con la quale la Corte di Appello di Genova (in riforma della sentenza del Tribunale di Imperia) aveva ritenuto nullo in quanto ritorsivo il licenziamento intimato a un dipendente, delegato sindacale, per aver rilasciato alla stampa alcune dichiarazioni critiche nei confronti del datore di lavoro in merito al trasferimento di un collega e alle condizioni di lavoro imposte dalla Società.



La Cassazione ha ribadito il principio secondo cui l’esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore – che trova fondamento nell’art. 21 della Costituzione e che, nell’ipotesi di critica espressa dal lavoratore con funzione di rappresentanza sindacale, gode di un’ulteriore copertura costituzionale costituita dall’art. 39 – può essere considerato comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro, e può costituire pertanto giusta causa di licenziamento, “laddove superi i limiti posti a presidio della dignità della persona umana, così come predeterminati dal diritto vivente”.



In particolare, la critica manifestata dal lavoratore può trasformarsi da esercizio lecito di un diritto in una condotta astrattamente idonea a configurare un illecito disciplinare laddove non rispetti i canoni di pertinenza e continenza, formale e sostanziale. Più precisamente: la critica deve rispondere a un interesse meritevole di tutela del lavoratore e, quindi, concernere direttamente o indirettamente le condizioni del lavoro o sindacali (pertinenza), deve conformarsi nell’esposizione a canoni di correttezza, misura e civile rispetto della dignità del datore di lavoro senza eccedere nell’attribuzione di qualità apertamente disonorevoli, in affermazioni ingiuriose ovvero in offese meramente personali (continenza formale) e, ove consista nell’attribuzione al datore di lavoro di determinati fatti, deve rispondere a verità, quanto meno secondo il prudente apprezzamento soggettivo del lavoratore (continenza sostanziale). Secondo la Cassazione, “il superamento di tali limiti, anche uno solo di essi, rende la condotta lesiva dell’onore datoriale non scriminata dal diritto di critica e suscettibile di rilievo disciplinare, in quanto contraria al dovere di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c.” (Cass. N. 1379/2019).



Un caso particolarmente eclatante, balzato anche agli onori della cronaca, è quello deciso dalla Cassazione con sentenza n. 14527 del 2018, relativo ad alcuni dipendenti Fiat licenziati per aver inscenato, di fronte all’ingresso del fabbricato aziendale e all’ingresso della sede regionale della Radiotelevisione italiana, la macabra rappresentazione del finto suicidio di Marchionne (allora amministratore delegato della società) tramite impiccagione su un patibolo accerchiato da tute macchiate di rosso e del successivo funerale con contestuale affissione di un manifesto, a mo’ di testamento, dove si attribuivano allo stesso Marchionne le morti per suicidio di alcuni lavoratori e la “deportazione” (ossia il trasferimento) di altri presso un diverso stabilimento. Riformando la sentenza del Tribunale di Nola, la Corte d’appello di Napoli aveva escluso la sussistenza della giusta causa di licenziamento, adducendo che la rappresentazione scenica doveva essere inquadrata nell’esercizio del legittimo diritto di critica, in quanto asseritamente rispettosa dei limiti della continenza sostanziale e formale, ricollegandosi – la rappresentazione – a drammatici eventi verificatisi poco prima dell’episodio disciplinare in esame e già oggetto di diffusione mediatica (i suicidi di alcuni lavoratori i quali avevano lasciato degli scritti ove esprimevano amarezza e dolore per la situazione di precarietà vissuta da anni nell’azienda ricorrente) ed essendo stata realizzata una rappresentazione sarcastica priva di violenza e di espressioni offensive, sconvenienti o eccedenti lo scopo della critica che si intendeva realizzare.

Con la citata sentenza n 14527del 2018 la Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla Società, annullando la sentenza della Corte di Appello di Napoli. Secondo la Cassazione, la rappresentazione posta in essere dai lavoratori licenziati ha esorbitato dai limiti della continenza formale, attribuendo all’amministratore delegato qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli, esponendo il destinatario al pubblico dileggio, effettuando accostamenti e riferimenti violenti e deprecabili in modo da suscitare sdegno, disistima nonché derisione e irrisione e travalicando, dunque, il limite della tutela della persona umana richiesto dall’art. 2 Cost. che impone, anche a fronte dell’esercizio del diritto di critica e di satira, l’adozione di forme espositive seppur incisive e ironiche, ma pur sempre misurate tali da evitare di evocare pretese indegnità personali.

Anche il mezzo utilizzato per criticare il proprio datore di lavoro può assumere rilevanza ai fini della legittimità o meno del licenziamento. E così, con sentenza n. 21965 del 2018 la Cassazione ha escluso la legittimità del licenziamento intimato a un lavoratore che nella chat sindacale su Facebook aveva insultato la società e l’amministratore delegato (“schiavisti” “faccia di m…” e “cogli….”). Secondo la Cassazione, l’esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni si impone anche riguardo ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservata agli aderenti a un determinato gruppo di persone, alle newsgroup o alle chat private, con accesso condizionato al possesso di una password fornita a soggetti determinati, come la chat di un gruppo Facebook. I messaggi che circolano attraverso le nuove forme di comunicazione, ove inoltrati non a una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti a un determinato gruppo, come appunto nelle chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile e tale caratteristica è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale. Di qui l’illegittimità del licenziamento.

Come rileva la Cassazione, l’apprezzamento in ordine al superamento dei limiti per un esercizio lecito della critica rivolta dal lavoratore al datore costituisce valutazione di fatto affidata ai giudici di merito. I quali, come emerge dalle vicende processuali esaminate, non sempre giungono alle stesse conclusioni, pur condividendo gli stessi principi.