Tra i luoghi comuni vi è anche quello secondo cui i comportamenti che ogni lavoratore tiene fuori dal contesto lavorativo, nella vita privata, non assumono nessun rilievo agli occhi del datore di lavoro. Ma è proprio così? La realtà è un po’ diversa. È vero che le condotte extralavorative non possono essere punite dal datore di lavoro con una sanzione conservativa (richiamo verbale, ammonizione scritta, multa, sospensione disciplinare), tuttavia possono essere sanzionate con il licenziamento in tronco qualora siano tali da incidere sull’elemento fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro.



Al riguardo, gli studiosi e la giurisprudenza segnalano da sempre che la fiducia è il presupposto fondamentale del contratto di lavoro, con la conseguenza che, se viene meno anche a fronte di condotte tenute al di fuori dell’ambito lavorativo, non c’è spazio per «la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto» ex art. 2119 c.c. Il licenziamento per giusta causa è quindi legittimo se il comportamento extralavorativo riveste “il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro”. All’opposto, quando non ci sia lesione del vincolo fiduciario, il licenziamento non sta in piedi, come ha segnalato la Corte di Cassazione con la recentissima sentenza del 26/03/2019 n. 8390.



Con questa pronuncia la Corte Suprema ha confermato una decisione di appello che aveva annullato un licenziamento ritenendo che la condotta extralavorativa fosse ininfluente rispetto alla valutazione della capacità del lavoratore di assolvere correttamente alla sua attività. Il caso considerato dalla sentenza è interessante: si trattava infatti di un dipendente che aveva posto in essere al di fuori del luogo di lavoro una grave minaccia in danno di un terzo. Si potrebbe pensare che una condotta del genere giustifichi il licenziamento, ma secondo la Corte Suprema “la minaccia pronunciata fuori dall’ambiente lavorativo e nei confronti di soggetti estranei ha una valenza diversa, nell’accertamento della lesione irreparabile del vincolo fiduciario, rispetto a quella profferita nei confronti del datore di lavoro o in ambito lavorativo, perché non incide intrinsecamente sugli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione cui è tenuto il dipendente nei confronti del superiore”.



Sulla stessa linea anche Cass. 10/11/2017, n. 26679, che ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un dipendente che aveva patteggiato una condanna per possesso di circa 100 grammi di hashish. In quest’ultima sentenza la Corte Suprema ha precisato quali sono gli elementi da valutare ai fini della legittimità o meno del licenziamento. La Cassazione ha infatti osservato che “le condotte concernenti la vita privata” legittimano il licenziamento “allorquando abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività”; ovvero quando ledano “gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario”; e sempre che si tratti di comportamenti “idonei, per le concrete modalità con cui si manifestino, ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (Cass. 18/09/2012, n. 15654): in particolare, quando siano contrari alle norme dell’etica corrente e del comune vivere civile (Cass. 01/12/2014, n. 25380)”.

In applicazione dei predetti principi la Corte Suprema ha ritenuto legittimi i licenziamenti intimati a dipendenti che avevano commesso il reato di detenzione ai fini di spaccio sostanze stupefacenti (Cass. n. 4633/2016 e Cass. n. 16524/2016), ovvero di “produzione e traffico di sostanze stupefacenti” (Cass. 21367/2016), ovvero che avevano riportato una “condanna penale per usura ed estorsione” (Cass. n. 776/2015).

In tale contesto, non sono però mancate sentenze che hanno cercato di ampliare l’ambito di rilevanza disciplinare delle condotte extralavorative. Ad esempio, il Tribunale di Lecce, con sentenza del 21/01/2019, n. 3868, ha affermato che possono assumere rilievo anche le condotte tenute prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro, purché “si tratti di comportamenti appresi dal datore dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate al dipendente e dal ruolo da quest’ultimo rivestito nell’organizzazione aziendale”. Nella specie, il Tribunale ha ritenuto legittimo il licenziamento di un insegnante che prima di essere assunto era stato riconosciuto colpevole di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. A sua volta, il Tribunale di Bergamo (con sentenza del 24/12/2015) ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che aveva “postato” sul proprio profilo Facebook una fotografia che lo ritraeva con un’arma.

Dunque: in linea generale, i comportamenti tenuti al di fuori del contesto lavorativo sono completamente irrilevanti sotto il profilo disciplinare, salvo che si tratti di comportamenti di tale gravità (da apprezzarsi caso per caso e in relazione alla tipologia della condotta, alla idoneità a incidere sul futuro corretto adempimento della prestazione lavorativa, alle mansioni svolte, al tipo di ruolo rivestito in azienda, alla contrarietà alle norme dell’etica corrente e del comune vivere civile) da distruggere il vincolo fiduciario che lega ogni dipendente al proprio datore di lavoro. In questo caso c’è il pericolo di una grave punizione: il licenziamento.