Con una nuova ordinanza dello scorso 27 settembre, il tribunale di Ravenna ha investito la Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 23 del 2015 (Jobs Act), laddove stabilisce l’applicazione della sola tutela indennitaria, nella forbice da sei a trentasei mensilità di retribuzione, anche per l’ipotesi di insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento. Per questo più grave vizio del recesso individuale per ragioni economiche o organizzative si invoca, pertanto, l’estensione della tutela reintegratoria c.d. debole o depotenziata, cioè quella che prevede il diritto a un’indennità risarcitoria, per il periodo dal licenziamento fino all’ordine di reintegra, nel limite massimo di dodici mensilità.
L’ordinanza è lunghissima (cinquanta pagine) ed è articolata in varie questioni di incostituzionalità (per il vero, sottoposte alla Consulta ben oltre la formula dubitativa), tutte comunque accomunate dal vizio di irragionevolezza per “cattivo uso della discrezionalità legislativa”, in uno alla possibile violazione del principio di parità di trattamento.
Sul piano strettamente tecnico, l’ordinanza prende le mosse dai suoi precedenti che, in relazione alla corrispondente fattispecie dell’art. 18, co. 7, Stat. lav. (nel testo modificato dalla legge Fornero n. 92 del 2012), hanno determinato la rimozione sia del potere giudiziale di reintegra, divenuto un dovere (Corte cost. n. 59/21), sia dell’aggettivo “manifesta” originariamente premesso all’insussistenza del fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo -g.m.o. (Corte cost. n. 125/22).
La conseguenza, nella prospettazione del giudice rimettente, è che nello schema binario Fornero/Jobs Act le due fattispecie complanari del licenziamento individuale (disciplinare/economico) non sarebbero più allineate in relazione all’elemento della “insussistenza”. Il fatto insussistente del licenziamento per giusta causa o motivo soggettivo (cioè quello “contestato”) comporta sempre l’applicazione della tutela reintegratoria debole (art. 18, co. 4, Stat. lav. e art. 3, co. 2, d.lgs. n. 23/15), mentre il fatto insussistente del g.m.o. (che è tale, secondo l’attuale indirizzo della Cassazione, anche solo per la violazione dell’obbligo di repêchage) conduce alla medesima tutela, grazie ai ricordati interventi del giudice delle leggi, soltanto nel caso dei licenziamenti soggetti alla disposizione statutaria. Come detto, la medesima “finestra” reintegratoria non è stata invece aperta per i c.d. neo-assunti (cioè assunti dal 7 marzo 2015 ai sensi dell’art. 1, co. 1, d.lgs. 23 del 2015, e dunque soggetti a tale regime in caso di licenziamento). Da qui le questioni che adesso involgono questa disciplina di tutela e che sono sintetizzabili nei seguenti termini.
Si pone innanzitutto un dubbio di disparità di trattamento che l’ordinanza coltiva, nel raffronto col licenziamento “per colpa”, sotto il duplice (ma connesso) profilo dell’irragionevole scelta legislativa di rimettere al datore di lavoro la qualificazione, definita “insindacabile”, del recesso come economico piuttosto che disciplinare, e dell’irragionevole diversificazione delle tutele nonostante l’identità o almeno omogeneità dei fenomeni, in entrambi i casi consistenti nell’accertata insussistenza del fatto.
Con una seconda questione, di impatto valoriale, si chiede alla Corte, limitatamente al grave vizio di ingiustificatezza in esame, di approfondire il tema della tutela reintegratoria alla stregua dell’assetto costituzionale vigente. Vale a dire che si chiede di rimeditare, attraverso una complessa disamina dei fattori incidenti sul bilanciamento dei diritti alla conservazione del lavoro e di iniziativa economica (evoluzione interpretativa della fattispecie del g.m.o.; emersione di nuovi diritti e forme di danno; principi e indicazioni sovranazionali sull’efficacia dissuasiva e deterrente della sanzione; tecniche di tutela adottate per analoghi illeciti datoriali; protezione della posizione creditoria del prestatore di lavoro rispetto al regime civilistico), gli approdi della stessa giurisprudenza costituzionale, finora incentrata sulla discrezionalità accordata al legislatore circa i rimedi, ripristinatori ovvero risarcitori, da apprestare contro un licenziamento illegittimo.
Infine, un’ulteriore questione insiste sull’arretramento di tutele, derivante dalla sola data dell’assunzione, rispetto alla disciplina dell’art. 18, co. 7, Stat. lav. Tale diversificazione è ritenuta irragionevole e foriera di disparità di trattamento, sicché si chiede alla Corte di riesaminare le valutazioni che l’avevano indotta ad affermare la legittimità di una modulazione delle tutele, secondo il “fluire del tempo”, in quanto finalizzata alla promozione dell’occupazione stabile, trattandosi – ad avviso del tribunale – di giudizio svolto solo “astrattamente” e senza una compiuta indagine sull’idoneità delle riforme del 2015 a conseguire lo scopo dichiarato.
Una disamina degli argomenti spesi nell’ordinanza presuppone non solo l’analisi di istituti e concetti, a partire da quello di “insussistenza del fatto”, ancora dibattuti in dottrina e soggetti al formante del diritto vivente, ma anche la loro preventiva sistematizzazione nell’ambito delle politiche del lavoro o almeno della più ampia disciplina dei licenziamenti, poiché ogni sua modifica incide sull’interpretazione delle altre norme che la compongono.
È certo, tuttavia, che le questioni sopra evidenziate, mentre segnalano un complessivo deficit di razionalità che eccede la potenziale irragionevolezza delle singole disposizioni, al contempo toccano il cuore dei recenti interventi legislativi. In sostanza si contesta l’idea, di ipotetica matrice economicista, che il posto di lavoro sia monetizzabile, perlomeno in relazione ai più gravi illeciti datoriali.
In proposito, di particolare interesse, anche de iure condendo, appare la tesi – trasversale ai motivi di rimessione – che ravvisa nella reintegrazione depotenziata l’epicentro della disciplina in materia. In realtà, gli ultimi approdi della giurisprudenza ordinaria non sembrano lontani dall’inverare questa soluzione. Ma il problema – ad avviso di chi scrive – resta l’insostenibile durata del processo, solo mitigata dal regime delle decadenze introdotto nel 2010, sia per i profili contributivi, sia per la sua combinazione con l’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra, che può sopraggiungere a distanza di molti anni dal licenziamento. Né è possibile limitarsi a rilevare, come invece fa il tribunale di Ravenna, che il processo svolto con l’abrogato rito sommario era “fulminante”, occorrendo invece, proprio per il bilanciamento degli interessi contrapposti, che in un tempo brevissimo si pervenga al giudicato. L’accelerazione dei tempi processuali mediante l’art. 441-bis c.p.c. è rimedio ancora insufficiente.
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