La madre di Lidia Macchi, Paola Bettoni, cerca ancora la verità sulla figlia, uccisa a coltellate nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987 e trovata senza vita in un bosco a Cittiglio (Varese). Un omicidio senza un colpevole, un crimine per cui la giustizia avrebbe sbagliato portando in carcere Stefano Binda, assolto in via definitiva dopo aver trascorso tre anni e mezzo in carcere e destinatario di un risarcimento per ingiusta detenzione di circa 300mila euro. L’assassino di Lidia Macchi non è mai stato trovato e la mamma, riporta il settimanael Giallo, sottolinea la sua amarezza per quanto sarebbe accaduto a reperti del delitto che ritiene sarebbero stati utili a risolvere il caso: “C’è stato un giudice che con noncuranza li ha distrutti“.



Ai microfoni della trasmissione Iceberg, su Telelombardia, Stefano Binda ha commentato l’indennizzo riconosciutogli per aver passato 1286 in cella ingiustamente: “È stato montato un processo indiziario a mio carico, ne è risultato un processo di prove positive a mio favore e, malgrado questo, ho preso l’ergastolo a Varese. Ma soprattutto, di queste prove positive a mio favore 3 su 4 erano già a conoscenza, non sono emerse dal processo”.

La delusione della madre di Lidia Macchi per i reperti distrutti

Ancora oggi la morte di Lidia Macchi è un caso irrisolto. Un mistero che attraversa il tempo senza l’identità del colpevole e che non smette di mordere il cuore di Paola Bettoni, madre della giovane uccisa nel 1987. La donna, riporta il settimanale Giallo, avrebbe espresso così la sua delusione: “Ho tutto il diritto anch’io di denunciare lo Stato. Nel mio caso c’è stato un giudice che con noncuranza ha distrutto dei reperti, in teoria in custodia dello Stato, che sarebbero stati indubbiamente utili a risolvere il delitto”. Secondo la donna, anche lei, al pari di Stefano Binda. avrebbe subito un’ingiustizia non riuscendo a ottenere verità sulla morte della figlia.

Anche la madre di Lidia Macchi, secondo il settimanale, starebbe meditando di agire per via legale dopo la presunta distruzione di reperti che avrebbero potuto, a suo dire, contribuire a dare un nome e un volto all’assassino della 20enne. Il tema è rovente sul tavolo delle cronache, e non solo per il delitto di Lidia Macchi. Recentemente, la questione della conservazione dei reperti nei casi di omicidio è tornata in testa dopo la notizia della presunta distruzione di alcuni di quelli relativi alla strage di Erba e al delitto di Yara Gambirasio, che non sarebbero mai stati concessi all’analisi delle rispettive difese dei condannati (rispettivamente i coniugi Romano-Bazzi e Massimo Bossetti).