Assolto dall’accusa di essere l’autore dell’omicidio di Lidia Macchi, Stefano Binda ha chiesto un risarcimento per la sua ingiusta detenzione di quando fu arrestato con l’accusa di aver appunto ucciso con 29 coltellate la studentessa 21enne nella notte tra il 5 e 6 gennaio 1987 a Cittiglio, in provincia di Varese. Contro l’accoglimento di tale richiesta si schiera, infatti, la Procura generale di Milano diretta da Francesco Nanni, presentando un ricorso in Cassazione che è stato redatto non dalla rappresentante dell’accusa nei processi, Gemma Gualdi, ma dalla collega Laura Gay.



Stando a quanto riportato dal Corriere della Sera, si chiede alla Suprema Corte di dichiarare che i giudici milanesi abbiano sbagliato nell’interpretazione della legge, che prevede un indennizzo all’arrestato se non ha concorso all’erroneo arresto col suo comportamento, anche colposo. Il 54enne, che era stato condannato all’ergastolo in primo grado dalla Corte d’Assise di Varese nel 2018, ma poi assolto dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano e dalla Cassazione, deve pertanto ancora aspettare di incassare il risarcimento di 300mila euro, il massimo per legge, cioè 235,87 euro per ognuno dei 1.286 giorni in carcere tra il 15 gennaio 2016 e il 24 luglio 2019.

“STEFANO BINDA CON SUO SILENZIO HA INDOTTO IN ERRORE”

Il ricorso della Procura generale di Milano evidenzia il comportamento avuto da Stefano Binda, che si avvalse più volte della facoltà di non rispondere nella vicenda relativa all’omicidio di Lidia Macchi. Ma è una tesi scivolosa, perché in primis è diritto dell’indagato tacere, inoltre la normativa sulla presunzione di innocenza ha precisato che ciò «non incide sul diritto alla riparazione» per ingiusta detenzione. La Procura generale, evidenzia il Corriere, sulla scorta di una sentenza della IV sezione della Cassazione di quest’anno, ritiene che, anche dopo la modifica legislativa risalente al novembre 2021, «il comportamento mendace in interrogatorio, sebbene espressione del diritto di difesa, costituisce condotta fortemente equivoca che, andando al di là del mero silenzio può avvalorare indizi su cui si fonda la misura cautelare e quindi può assumere rilievo ai fini del’accertamento della colpa grave ostativa alla riparazione». In altre parole, la procura afferma che col silenzio Stefano Binda abbia concorso all’errore della sua carcerazione.

Di conseguenza, la Procura generale di Milano ritiene che i giudici che hanno accolto la richiesta di risarcimento abbiano «abdicato» alla propria funzione perché, «indugiando sulla sentenza assolutoria» finale riguardo l’omicidio di Lidia Macchi, avrebbero «omesso di confrontarsi con gli elementi utilizzati dai giudici» che decisero e confermarono la detenzione di Stefano Binda. Tali elementi non sono stati «mai storicamente esclusi dai giudici di merito», le cui sentenze assolutorie «evidenziano solo la loro ritenuta» (dai giudici delle assoluzioni) «irrilevanza in funzione del giudizio di responsabilità di Binda».